1.12
CARO SAN CRISTOFORO
I SIKH DELLA PONTINA
Alexander Langer
Alessandro Leogrande
1 marzo, 1990
Caro San Cristoforo,
non so se tu ti ricorderai di me come io di te. Ero un ragazzo che ti vedeva dipinto all'esterno di tante piccole chiesette di montagna. Affreschi spesso sbiaditi, ma ben riconoscibili. Tu - omone grande e grosso, robusto, barbuto e vecchio - trasportavi il bambino sulle tue spalle da una parte all'altra del fiume, e si capiva che quella era per te suprema fatica e suprema gioia. Mi feci raccontare tante volte la storia da mia madre, che non era poi chissà quale esperta di santi né devota, ma sapeva affascinarci con i suoi racconti. Così non ho mai saputo il tuo vero nome né la tua collocazione ufficiale tra i santi della chiesa (temo che tu sia stato vittima di una recente epurazione che ti ha degradato a santo minore o di dubbia esistenza). Ma la tua storia me la ricordo bene, almeno nel nocciolo. Tu eri uno che sentiva dentro di sé tanta forza e tanta voglia di fare, che dopo aver militato - rispettato e onorato per la tua forza e per il successo delle tue armi - sotto le insegne dei più illustri e importanti signori del tuo tempo, ti sentivi sprecato. Avevi deciso di voler servire solo un padrone che davvero valesse la pena seguire, una Grande Causa che davvero valesse più delle altre. Forse eri stanco di falsa gloria e ne desideravi di quella vera. Non ricordo più come ti venne suggerito di stabilirti sulla riva di un pericoloso fiume per traghettare - grazie alla tua forza fisica eccezionale - i viandanti che da soli non ce la facessero, né come tu abbia accettato un così umile servizio che non doveva apparire proprio quella "Grande Causa" della quale - capivo - eri assetato. Ma so bene che era in quella tua funzione, vissuta con modestia, che ti capitò di essere richiesto di un servizio a prima vista assai "al di sotto" delle tue forze: prendere sulle spalle un bambino per portarlo dall'altra parte, un compito per il quale non occorreva certo essere un gigante come te e avere quelle gambone muscolose con cui ti hanno dipinto. Solo dopo aver iniziato la traversata ti accorgesti che avevi accettato il compito più gravoso della tua vita e che dovevi mettercela tutta, con un estremo sforzo, per riuscire ad arrivare di là. Dopo di che comprendesti con chi avevi avuto a che fare e che avevi trovato il Signore che valeva la pena servire, tanto che ti rimase per sempre quel nome.
Perché mi rivolgo a te, alle soglie dell'anno 2000? Perché penso che oggi in molti siamo in una situazione simile alla tua e che la traversata che ci sta davanti richieda forze impari, non diversamente da come a te doveva sembrare il tuo compito in quella notte, tanto da dubitare di farcela. E che la tua avventura possa essere una parabola di quella che sta dinanzi a noi.
Ormai pare che tutte le grandi cause riconosciute come tali, molte delle quali senz'altro importanti e illustri, siano state servite, anche con dedizione, e abbiano abbondantemente deluso. Quanti abbagli, quanti inganni e auto-inganni, quanti fallimenti, quante conseguenze non volute (e non più reversibili) di scelte e invenzioni ritenute generose e provvide.
I veleni della chimica, gettati sulla terra e nelle acque per "migliorare" la natura, ormai ci tornano indietro: i depositi finali sono i nostri corpi. Ogni bene e ogni attività è trasformata in merce, e ha dunque un suo prezzo: si può comperare, vendere, affittare. Persino il sangue (dei vivi), gli organi (dei morti e dei vivi) e l'utero (per una gravidanza in "leasing"). Tutto è diventato fattibile: dal viaggio interplanetario alla perfezione omicida di Auschwitz, dalla neve artificiale alla costruzione e manipolazione arbitraria di vita in laboratorio.
Il motto dei moderni giochi olimpici è diventato legge suprema e universale di una civiltà in espansione illimitata: citius, altius, fortius, più veloci, più alti, più forti, si deve produrre, consumare, spostarsi, istruirsi... competere, insomma. La corsa al "più" trionfa senza pudore, il modello della gara è diventato la matrice riconosciuta ed enfatizzata di uno stile di vita che sembra irreversibile e incontenibile. Superare i limiti, allargare i confini, spingere in avanti la crescita ha caratterizzato in misura massiccia il tempo del progresso dominato da una legge dell'utilità definita "economia" e da una legge della scienza definita "tecnologia" - poco importa che tante volte di necro-economia e di necro-tecnologia si sia trattato.
Che cosa resterebbe da fare a un tuo emulo oggi, caro San Cristoforo? Qual è la Grande Causa per la quale impegnare oggi le migliori forze, anche a costo di perdere gloria e prestigio agli occhi della gente e di acquattarsi in una capanna alla riva di un fiume? Qual è il fiume difficile da attraversare, quale sarà il bambino apparentemente leggero, ma in realtà pesante e decisivo da traghettare?
Il cuore della traversata che ci sta davanti è probabilmente il passaggio da una civiltà del "di più" a una del "può bastare" o del "forse è già troppo". Dopo secoli di progresso, in cui l'andare avanti e la crescita erano la quintessenza stessa del senso della storia e delle speranze terrene, può sembrare effettivamente impari pensare di "regredire", cioè di invertire o almeno fermare la corsa del citius, altius, fortius. La quale è diventata autodistruttiva, come ormai molti intuiscono e devono ammettere (e sono lì a documentarlo l'effetto-serra, l'inquinamento, la deforestazione, l'invasione di composti chimici non più domabili... e un ulteriore lunghissimo elenco di ferite della biosfera e dell'umanità).
Bisogna dunque riscoprire e praticare dei limiti: rallentare (i ritmi di crescita e di sfruttamento), abbassare (i tassi di inquinamento, di produzione, di consumo), attenuare (la nostra pressione verso la biosfera, ogni forma di violenza). Un vero "regresso", rispetto al "più veloce, più alto, più forte". Difficile da accettare, difficile da fare, difficile persino a dirsi.
Tant'è che si continuano a recitare formule che tentano una contorta quadratura del cerchio parlando di "sviluppo sostenibile" o di "crescita qualitativa, ma non quantitativa", salvo poi rifugiarsi nella vaghezza quando si tratta di attraversare in concreto il fiume dell'inversione di tendenza.
E invece sarà proprio ciò che ci è richiesto, sia per ragioni di salute del pianeta, sia per ragioni di giustizia: non possiamo moltiplicare per 5-6 miliardi l'impatto ambientale medio dell'uomo bianco e industrializzato, se non vogliamo il collasso della biosfera, ma non possiamo neanche pensare che 1/5 dell'umanità possa continuare a vivere a spese degli altri 4/5, oltre che della natura e dei posteri.
La traversata da una civiltà impregnata della gara per superare i limiti a una civiltà dell'autolimitazione, dell'"enoughness", della "Genügsamkeit" o "Selbstbescheidung", della frugalità sembra tanto semplice quanto immane. Basti pensare all'estrema fatica con cui il fumatore o il tossicomane o l'alcolista incallito affrontano la fuoruscita dalla loro dipendenza, pur se magari teoricamente persuasi dei rischi che corrono se continuano sulla loro strada e forse già colpiti da seri avvertimenti (infarti, crisi...) sull'insostenibilità della loro condizione. Il medico che tenta di convincerli invocando o fomentando in loro la paura della morte o dell'autodistruzione, di solito non riesce a motivarli a cambiare strada, piuttosto convivono con la mutilazione e cercano rimedi per spostare un po' più in là la resa dei conti.
Ecco perché mi sei venuto in mente tu, San Cristoforo: sei uno che ha saputo rinunciare all'esercizio della sua forza fisica e che ha accettato un servizio di poca gloria. Hai messo il tuo enorme patrimonio di convinzione, di forza e di auto-disciplina al servizio di una Grande Causa apparentemente assai umile e modesta. Ti hanno fatto -- forse un po' abusivamente -- diventare il patrono degli automobilisti (dopo essere stato più propriamente il protettore dei facchini): oggi dovresti ispirare chi dall'automobile passa alla bicicletta, al treno o all'uso dei propri piedi! E il fiume da attraversare è quello che separa la sponda della perfezione tecnica sempre più sofisticata da quella dell'autonomia dalle protesi tecnologiche: dovremo imparare a traghettare dalle tante alle poche kilowattore, da una super-alimentazione artificiale a una nutrizione più equa e più compatibile con l'equilibrio ecologico e sociale, dalla velocità supersonica a tempi e ritmi più umani e meno energivori, dalla produzione di troppo calore e troppe scorie inquinanti a un ciclo più armonioso con la natura. Passare, insomma, dalla ricerca del superamento dei limiti a un nuovo rispetto di essi e da una civiltà dell'artificializzazione sempre più spinta a una riscoperta di semplicità e di frugalità.
Non basteranno la paura della catastrofe ecologica o i primi infarti e collassi della nostra civiltà (da Cernobyl alle alghe dell'Adriatico, dal clima impazzito agli spandimenti di petrolio sui mari) a convincerci a cambiare strada. Ci vorrà una spinta positiva, più simile a quella che ti fece cercare una vita e un senso diverso e più alto da quello della tua precedente esistenza di forza e di gloria. La tua rinuncia alla forza e la decisione di metterti al servizio del bambino ci offrono una bella parabola della "conversione ecologica" oggi necessaria.
Pubblicato per "Lettere 2000" edizioni Eulema
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© 2004-2020 Fondazione Alexander Langer Stiftung
Giugno, 2009
Via dei Cinque Archi è una strada che scende nel verde da Velletri verso la costa tirrenica. Si chiama così perché, a un certo punto, passa sotto un vecchio ponte rossastro che ha cinque archi. A pochi chilometri dal paese sorge un tempio sikh, uno dei più frequentanti della regione. È un unico stanzone dalle luci soffuse, pieno di tappeti e stoffe rosse, gialle, arancioni. C’è un altarino, e sulle pareti sono appese immagini di Guru Gobing, una delle massime autorità religiose del passato. Benché difficile da afferrare nella sua essenza da una prospettiva europea, il sikhismo è un credo religioso sincretico, pervaso di profonda tolleranza; e le quattro mura di questo tempio paiono comunicarlo.
Di domenica il tempio si riempie di centinaia di punjabi. Vengono dal nord dell’India, ai confini con il Pakistan. Sono soprattutto uomini, ma non mancano le donne e i bambini, che scorrazzano tra gli alberi. Pregano per ore e a fine giornata cucinano insieme. Sono i braccianti della zona, i nuovi lavoratori della terra. Secondo calcoli approssimativi dell’ambasciata, gli indiani presenti in Italia (non solo i sikh) sono 150 mila, di cui circa 70 mila – stando alle norme della Bossi-Fini – «clandestini». Almeno ventimila si concentrano nel Lazio meridionale, in un triangolo i cui vertici sono costituiti dalla stessa Velletri, Anzio e Formia.
Al tempio ho conosciuto Singh, 35 anni, bracciante. Vive in Italia da tre lustri, ma parla ancora poco l’italiano. Lo capisce, ma quando è il momento di parlare fa fatica ad esprimersi. Così è anche per tutti gli altri: non imparano l’italiano, perché in fondo guardano all’Italia come a un posto in cui lavorare temporaneamente, mandando i soldi a casa, non un paese in cui integrarsi. Ma poi il lavoro dei campi diventa sempre più gravoso, l’incomprensione della lingua una muraglia, e il tempo si dilata. Il «temporaneo» è un concetto labile, si volge in anni sempre uguali a se stessi, fatti di sudore ed esclusione: i soldi da mandare a casa non sono mai sufficienti, i ricongiungimenti famigliari sono più l’eccezione che la regola, e nel frattempo la vita corre via. Ti ritrovi a 30-40 anni invischiato in un limbo. Sono in pochi a tirarsi fuori da questo diktat del tempo, e Singh non pare essere uno di loro.
Singh ha lavorato per oltre dieci anni per un piccolo proprietario della zona. Sembrava «buono». Gli dava anche la busta paga: apparentemente il suo era un contratto regolare, e ciò gli ha permesso in tutti questi anni di rimanere in Italia, ma i soldi che poi riceveva erano molto meno di quelli segnati in busta. Tuttavia Singh non si è ribellato: in fondo, oltre a lavorare faceva anche da guardiano e quel padrone che pareva buono gli aveva dato anche un piccolo alloggio senza fargli pagare le spese. È andata così fino a quando Singh non ha deciso di far venire in Italia la moglie e loro due bambini. Al padrone l’idea non è piaciuta per niente: quando per anni uno è considerato semplice forza-lavoro è poi difficile, da un momento all’altro, percepirlo come persona, con i suoi diritti e i suoi bisogni. Così il padrone che pareva buono è diventato «cattivo». Appena la moglie e i bambini piccoli sono arrivati, ha staccato luce e acqua dal piccolo alloggio, considerando il ricongiungimento familiare del suo bracciante una piccola invasione. La guerra psicologica è durata poco. Nonostante i soldi spesi per il viaggio, la moglie non ha retto, specie quando i bambini si sono ammalati. Così è tornata nel Punjab, e Singh è rimasto qui.
Poco dopo il padrone che pareva buono è morto. L’azienda di famiglia è passata nelle mani del figlio e la prima cosa che ha fatto è stata quella di licenziare Singh, negandogli – insieme alla busta paga fittizia – il permesso di soggiorno in Italia. Dopo anni e anni di duro lavoro, Singh si è reso conto di non avere in mano niente: tornare indietro avrebbe voluto dire fare la fame e, soprattutto, ammettere a se stesso che il proprio progetto migratorio era andato in pezzi. Allora ne è venuto fuori come tutti. Un anno fa ha pagato 5 mila euro (sì, 5 mila euro!) un altro piccolo imprenditore della zona perché formalmente lo assumesse, permettendogli di rinnovare il permesso di soggiorno. Per lui non ha mai lavorato. Lavora a nero, come tutti i braccianti stranieri, per padroni e padroncini della zona. Anche qui ci sono i caporali, italiani e stranieri: raccoglie frutta, ortaggi, pomodori… per tre euro all’ora. Questo quando gli va bene, perché poi ci sono anche gli imprenditori che pagano meno, e le lunghe giornate in cui non si lavora.
Facendo un calcolo sommario, Singh sostiene di guadagnare 500 euro al mese. 200 li spende per l’affitto (ora vive in due stanze con altri due connazionali), 200 li manda alla moglie e ai figli tornati nel Punjab, e con 100 riesce a vivere. Campare con 100 euro al mese, in Italia, gli sembra la più naturale delle cose… Quando gli ho chiesto perché non se ne va in Germania o in Inghilterra, dove sarebbe pagato sicuramente meglio, mi ha risposto che non ce la fa a fare un salto nel buio. Non se la sente: «Se io vado là, e per due mesi non lavoro, cosa mando a casa? Come vivono loro?» Allora gli ho chiesto come fa ad andare avanti, come fa a reggere tutto questo. «Prego», mi ha risposto, «Vado al tempio». Singh prega tutti i giorni, per 3-4 ore. Ogni pomeriggio, quando ha finito di lavorare nei campi, risale a piedi o in bicicletta Via dei Cinque Archi e va al tempio. E lì, nel silenzio delle luci soffuse, i lunghi capelli raccolti nel solito turbante giallo, le mani intrecciate sotto il mento dalla barba fluente, chiude gli occhi e ritrova la pace. La violenza, il sopruso, l’inganno, l’ingiustizia melmosa scompaiono. Poi torna a casa, mangia qualcosa e va dormire presto.
Ancora più che nella provincia di Roma, gli indiani e i punjabi del Lazio si concentrano nella provincia di Latina, lungo la Pontina. Giovanni Gioia, segretario generale della Flai Cgil latinense, dice: «Nel Punjab guadagnano un euro all’ora. Per cui pensano che qui essere pagati 3 euro sia un affare. Quando gli dici che per contratto hanno diritto a 7 euro all’ora, ti credono un marziano». Tra Sabaudia e Terracina, le borgate agricole sono ormai indiane. Vivono a decine nei casolari diroccati e lavorano una delle terre più fertili d’Italia. «Ci sono solo loro ormai, i rumeni si sono spostati nell’edilizia». Per mettere in piedi il benché minimo lavoro sindacale occorre rompere la cappa del limbo. Ma farlo «da italiani» è impossibile. Servono mediatori, costruttori di ponti come Nanda, un indiano di Delhi che ha una rosticceria a Latina e lavora con la Flai. Nanda è una figura autorevole, riconosciuta tra i braccianti. È il punto di riferimento per la risoluzione di ogni problema, ed è – allo stesso tempo – il veicolo attraverso cui passano le informazioni sui diritti, sul miglioramento delle proprie condizioni. Quando a fine aprile c’è stata a Castelvolturno la prima assemblea nazionale dei lavoratori migranti della terra, il pullman del Lazio è stato riempito quasi interamente dagli indiani e dai sikh della Pontina richiamati da lui. Su quel pullman c’ero anch’io.
Accanto a me era seduto un ragazzino: avrà avuto 19-20 anni, ma ne dimostrava di meno. Sul suo videofonino (che aveva recuperato da un parente) aveva scaricato un’infinità di video di Bollywood: perlopiù spezzoni melodrammatici in cui giovani uomini e giovani donne cantano e ballano corteggiandosi. Raccolti in cinque intorno a quello schermo di pochi pollici le osservavano con attenzione, assorti e felici. A un certo punto si sono messi a cantare in coro una canzone di Udit Narayan, la star che in quel momento si agitava sullo schermo. Nasha yeh pyaar ka nasha hai si chiamava la canzone e, sebbene non conosca una sola parola di hindi, ci ho messo pochi secondi per capire che era la traduzione fedele (non solo nella melodia, ma anche nell’assonanza delle parole) di L’italiano di Toto Cutugno. Loro erano convinti che fosse una canzone di Bollywood, così come una bicicletta ha due ruote e un auto quattro. E nulla ha scalfito le loro certezze, men che meno la mia strenua difesa della paternità di Toto Cotugno su quelle note. Sapere che un gruppo di braccianti indiani impazzisce, ignaro, per una cover di L’italiano è stata una delle più grandi lezioni sulla globalizzazione dei processi culturali. Chi osteggia il meticciato (delle società e delle culture) è semplicemente fuori dal mondo. Se non ci credete, cercate Nasha yeh pyaar ka nasha hai su You Tube.
P.S. Da almeno due decenni il Lazio meridionale, e soprattutto la provincia di Latina, sono considerati terra di conquista da parte dei clan camorristici del casertano. Come raccontano tutte le inchieste delle Commissioni antimafia che si sono succedute nelle ultime legislature, la penetrazione della criminalità organizzata è stata capillare, specie nella pianura Pontina: racket, estorsioni, controllo dell’edilizia.
Nel novero negli interessi criminali non poteva mancare l’agroalimentare.
Il mercato ortofrutticolo di Fondi (Mof) è il secondo d’Europa. È uno dei punti nevralgici del sistema agricolo italiano: tra tir che arrivano e tir che partono, qui si fanno i prezzi, qui si decide chi comanda. Secondo la Direzione distrettuale antimafia, a Fondi vige «l’estorsione indiretta». Agguati e attentanti ci sono, ma solo in casi estremi; la normalità è data invece dalla presenza di alcune imprese di trasporto e ditte di imballaggio che hanno assunto un ruolo oligopolistico: i produttori e i grossisti sono costretti a privilegiarle se non vogliono essere messi ai margini… Così, l’impiego massiccio di manodopera straniera sottopagata può essere letto in un altro modo: è l’altra faccia della medaglia di un sistema che, strozzando i prezzi all’inizio della catena, richiede una compressione straordinaria del costo del lavoro.
A lungo si è sottovalutata la pericolosità dell’intreccio tra criminalità organizzata, economia e politica nel Lazio meridionale, e il mancato scioglimento del comune di Fondi lo rivela appieno. La vicenda è quasi paradossale. Fin dall’8 settembre 2008 il prefetto di Latina ha chiesto lo scioglimento per infiltrazione mafiosa: nella richiesta si parla di relazioni tra «figure di vertice del comune di Fondi», amministrato dal centrodestra, e il boss napoletano Domenico Tripodo, legato sia ai casalesi che all’ndrangheta. Solo il 2 aprile scorso il ministro dell’interno Maroni ha sottoscritto il decreto, eppure il Consiglio dei Ministri non ha ancora firmato la delibera, avviando di fatto l’insediamento di un commissario prefettizio. Nel frattempo sono state sciolte altre due amministrazioni comunali, Rosarno e Villa Literno. Anche queste – e forse non è un caso – insediate in territori in cui vige un feroce sfruttamento in agricoltura.
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© Il Mese, supplemento di giugno di Rassegna Sindacale
© Minima & Moralia, 10 Agosto 2009