IL PROGETTO
Ci sono esistenze che, se anche lontane geograficamente o generazionalmente, se anche materialmente assenti alla dimensione terrena perché breve e intensissima la loro parabola umana, gettano una luce persistente sulla vita degli altri. Non solo – com’è comune che accada – sulla vita dei familiari o di chi li ha conosciuti e voluto bene, ma anche sulla vita degli sconosciuti. E non nei modi dei leader o delle dottrine ma in quelli di una postura, di un incedere, dei toni della voce e del discorso; dove generosità, intelligenza, rischio, sono forme tangibili di un pensiero che fa con te famiglia.
Accade con le persone, come con i luoghi. Questa teoria degli affetti che riconosce persone e luoghi, se anche li lascia sconosciuti riserva loro una forma d’amore e la statura di esempio. Noi siamo i luoghi che abbiamo attraversato. I luoghi vissuti o immaginati, i luoghi ricomposti e ricombinati con arbitrio, i luoghi sovrapposti o dimenticati. Noi siamo le persone che abbiamo incontrato, ascoltato, sfiorato, cresciuto, mancato. La presenza degli uni agli altri, fa di noi, anche nell’assenza, creature di quella relazione.
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La mia vita si è nutrita della compagnia di alcuni esempi. Edmond Jabès per il riscatto della giovinezza da una bolla altrimenti indecifrabile di scontento; Hannah Arend per l’esposizione dell’ambiguità del giudizio e del racconto nella storia; Edoardo Sanguineti per l’affondo nella spregiudicatezza della lingua; Michel Butor per lo strappo dei confini tra l’alto e il basso dei generi letterari, dei luoghi, delle età; Ingeborg Bachmann per la deflagrazione e l’indizio poetico; sono solo alcuni di questi. E ancora: certi spaccati del Montefeltro, la scalata dello Chaberton, tutte le strade fiancheggiate da campi incolti, svariate manifestazioni del paesaggio, ripetuti passaggi di frontiera tra Italia e Austria tra gli anni ottanta e novanta; sono archetipi che trattengono e rilasciano come un mantice, il respiro che connette la mia vita al mondo.
Gli esempi non rivendicano la gerarchia dei maestri, non generano culti ma atmosfere. Dedico da sempre a queste atmosfere, la parola amicizia. Chiamo amicizia la possibilità di fare, insieme, discorso. Per attraversare linguisticamente il mondo – i paesaggi, le età, il tempo, la vita, la morte – e generare, da quell’attraversamento, delle poetiche e delle pratiche civili. Forse questa forma di incontro corrisponde in parte a ciò che Benjamin chiama aura. Dice Benjamin, che l’aura è «un singolare intreccio di spazio e tempo: l’apparizione unica di una lontananza, per quanto possa essere vicina». Questo attrarsi da lontananze, questo intuire l’ignoto, questo appartenersi e non, questo appartenere al mondo e non, accessibile e inaccessibile insieme. Quest’alterità forse io chiamo amicizia la cui opera allora si presenta come un discorso, comprende (contiene e intende) la natura performativa e mutevole del testo.
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La figura di ALEXANDER LANGER ha abitato lo sfondo della mia giovinezza. Avevo tredici anni quando a metà degli anni settanta comparve tra tutti noi contemporanei l’adesivo con il sole che ride. La mia emancipazione familiare passò anche da lì. Non poteva restare indifferente una ragazzina tanto inquieta, a quel variopinto movimento anti-nucleare, femminista, anti-militarista, né inascoltata la voce di uno dei promotori del pensiero "verde" italiano ed europeo. Poi arrivò la catastrofe di Chernobyl. Poi il massacro di Srebrenica.
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«La conversione ecologica potrà affermarsi soltanto se apparirà socialmente desiderabile» è il titolo che Langer da al suo intervento, scandito in otto punti, il primo agosto 1994 ai Colloqui di Dobbiaco; testo inserito in quell’opera capitale che è Il Viaggiatore leggero. Scritti 1961 - 1995, (pp.204-216), a cura di Edi Rabini e Adriano Sofri. Sellerio Editore, 1996.
Così scrive Langer ai punti sei e otto:
6. La domanda decisiva è: come può risultare desiderabile una civiltà ecologicamente sostenibile? "Lentius, profundius, suavius", al posto di "citius, altius, fortius".
[…] A quanto risulta, sinora il desiderio di un'alternativa globale – sociale, ecologica, culturale – non è stato sufficiente, o le visioni prospettate non sufficientemente convincenti. […]
Sinora si è agito all'insegna del motto olimpico "citius, altius, fortius" (più veloce, più alto, più forte), che meglio di ogni altra sintesi rappresenta la quintessenza dello spirito della nostra civiltà, dove l'agonismo e la competizione non sono la nobilitazione sportiva di occasioni di festa, bensì la norma quotidiana ed onni-pervadente. Se non si radica una concezione alternativa, che potremmo forse sintetizzare, al contrario, in "lentius, profundius, suavius" (più lento, più profondo, più dolce"), e se non si cerca in quella prospettiva il nuovo benessere, nessun singolo provvedimento, per quanto razionale, sarà al riparo dall'essere ostinatamente osteggiato, eluso o semplicemente disatteso. Ecco perché una politica ecologica potrà aversi solo sulla base di nuove (forse antiche) convinzioni culturali e civili, elaborate - come è ovvio - in larga misura al di fuori della politica, fondate piuttosto su basi religiose, etiche, sociali, estetiche, tradizionali, forse persino etniche (radicate, cioè, nella storia e nell'identità dei popoli). Dalla politica ci si potrà aspettare che attui efficaci spunti per una correzione di rotta ed al tempo stesso sostenga e forse incentivi la volontà di cambiamento: una politica ecologica punitiva che presupponga un diffuso ideale pauperistico non avrà grandi chances nella competizione democratica.
8. Una Costituente ecologica?
[…] Se si vuole riconoscere ed ancorare davvero la desiderabilità sociale di modi di vivere, di produrre, di consumare compatibili con l'ambiente, bisognerà forse cominciare ad immaginare un processo costituente, che non potrà avere, ovviamente, in primo luogo carattere giuridico, quanto piuttosto culturale e sociale, ma che dovrebbe sfociare in qualcosa come una "Costituente ecologica". In fondo le Costituzioni moderne hanno il significato di vincolare il singolo ed ogni soggetto pubblico o privato ad alcune scelte di fondo che trascendono la generazione presente o, a maggior ragione, la congiuntura politica del momento. Se non si arriverà a dare un solido fondamento alla necessaria decisione di conversione ecologica, nessun singolo provvedimento sarà abbastanza forte da opporsi all'apparente convenienza che l'economia della crescita e dei consumi di massa sembra offrire.
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Né la donna che diventai, per quanto tesa in una dimensione lirica del mondo, poteva ignorare, da una parte, l’inazione sotto la quale l’Europa fece passare l’atrocità della guerra in casa, dell’ex Jugoslavia; e d’altra parte gli interventi di Langer per una politica di pace, ma anche di netta distinzione tra carnefici e perseguitati in quello che venti anni dopo sarebbe stato riconosciuto come un genocidio.
La figura di Langer è riaffiorata in alcuni snodi della mia vita adulta. Tuttavia, né a Rimini nel 2014, né a Ferrara nel 2019, riuscii a dare seguito all’intenzione di realizzare delle giornate di osservazioni interdisciplinari, sulle politiche e le pratiche che riconoscono la relazione tra giustizia sociale e tutela ambientale; nella prospettiva di quella che Langer chiamò “conversione ecologica” della società e dell’economia, e che noi oggi chiamiamo “ecologia politica”. Non ci riuscii allora, ma in seguito avviai con Federica Rocchi, Serena Terranova – compagne con Ass.Amigdala oramai da anni, che sanno dare fiducia all’utopia – un percorso per PERIFERICO 2020 che conduce fino a qui.
Nel frattempo prendeva corpo una giornata all’interno di Azioni sul Calendario, progetto curato a Poggio Torriana, un piccolo Comune nella provincia di Rimini. Tonino Perna, economista e sociologo, collaboratore e amico di Alexander e pioniere della rinascita anche economica dei territori del Sud-Italia, fuori dalle logiche speculative, ci ha accompagnati nell’incontro che con il titolo (non a caso) Riparare il mondo, segnava un passaggio cruciale.
Era il 23 febbraio 2020. Dal giorno dopo, l’umanità è entrata in una crisi globale: covid19 ha reso manifesta la malattia nel corpo del capitalismo finanziario.
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Il lavoro di ALESSANDRO LEOGRANDE è entrato nella mia vita adulta, perlopiù via radio. Con lui, Taranto e i lavoratori dell’Ilva; il caporalato agricolo, donne, uomini e terre oppresse; i viaggi per mare e per terra di umanità in fuga dalle guerre del mondo; la gestione da parte della criminalità organizzata, del lavoro e delle vite migranti; vengono alla luce attraverso il ritmo e il timbro della sua voce. Suoi sono i racconti di “esperienze eccezionali”, Capitini, Dolci, Valarioti, Camus, Rostagno, e lo stesso Langer; dal cattolicesimo illuminato che con la prima Marcia Perugia-Assisi per la pace e la fratellanza dei popoli, il 24 settembre 1961, sposa la causa del pacifismo e del disarmo su scala internazionale, alla caduta del comunismo in Albania, con l’abbattimento della statua del dittatore Enver Hoxha, il 20 febbraio 1991.
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È un atlante quello disegnato da Alessandro Leogrande, che osserva ed estrae dalla geografia del mondo e dal flusso della storia, le vite singole e sempre degne. Langer ne è parte, con un progetto radiofonico approfondito e bellissimo, in cui emerge il trasporto e la convergenza dei temi, dell’uno nell’altro.
Leogrande condivide con Langer una passione pedagogica, perché anche questo è lo scavo linguisticamente attrezzato, nelle iniquità del presente e del passato; il valore della testimonianza e della presenza nell’osservare e raccontare il proprio tempo per mettere lo sguardo, sensibile all’agire critico, nella disponibilità del presente e del futuro; creare con il proprio lavoro, costanti presidi di cultura, legalità, incontro.
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Spostate su esperienze di vita tra loro distanti qualche decennio, le personalità e le tematiche di Alexander Langer e Alessandro Leogrande si affiancano, raggiungono, compenetrano. Il tema dei confini, delle lingue e delle culture, così presente in Langer tanto da riassumere la sua figura come “costruttore di ponti e saltatore di muri”: «Laddove un confine nasce, c’è bisogno di qualcuno che lo attraversi» scrive Langer nel Decalogo per una convivenza interetnica, nel 1995, diventa in Alessandro Leogrande frontiera: «Frontiera è il campo che si genera nel mutare delle configurazioni. Luogo di confronto e conflitto, rotture e ricomposizioni, resistenze e adattamenti. Pur non coincidendo immediatamente con esso, la frontiera si produce in uno spazio geografico concreto e si costituisce nel concreto divenire storico».
Entrambi, Alexander e Alessandro, affini e omonimi nello spazio di fraternità delle lingue, hanno avuto e hanno già compagni, testimoni ed eredi, all’altezza del loro operato. Per tutti c’è del cammino da fare.
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«[…] Oggi ricordiamo Langer come costruttore di ponti e saltatore di muri, ricorrendo alle immagini che lui stesso ha suggerito – e incarnato – per descrivere la figura del mediatore e dell'esploratore di frontiera. Nel suo Tentativo di decalogo per la convivenza inter-etnica (1995), vera e propria bussola per affrontare alcune delle grandi questioni della contemporaneitàÌ€, ne parla come di figure centrali per superare le divisioni che sorgono in situazioni di coesistenza tra gruppi di diversa lingua e cultura. Laddove un confine nasce, c’è bisogno di qualcuno che lo scavalchi, lo attraversi. E laddove ci sono tensione e conflitto, sosteneva Langer, tutto questo assomiglierà al contrabbando. Come quando a dispetto dell'inviolabilità delle barriere, sui sentieri di passo e di nascosto dalle guardie messe a difesa dei patrii suoli, lo scambio tra l’una e l’altra parte continuava ad avvenire. Serviranno anche traditori della compattezza etnica, che non si dovranno trasformare in transfughi per rimanere credibili. Langer intendeva persone capaci di chiamarsi fuori dal proprio fronte quando questo si chiude in cieco esclusivismo, quando non fa i conti con le sue miserie presenti e passate, quando il «rimanere uniti» è l'unico valore che tutto sopporta, giustifica e cancella. Tradire allora diventa un atto d’amore e di verità per la propria parte. Nella storia dei territori di confine quella del traditore è forse una delle figure più ingombranti e ambivalenti: tale per gli uni ed eroe per gli altri. E il pensiero corre a un altro figlio della terra infra montes: Cesare Battisti. Il traditore è là dove c’è un confine da non oltrepassare, dove la linea di demarcazione tra amico e nemico, tra il dentro e il fuori, appare netta e inconfondibile, dov’è bandito lo scambio. Al traditore bisogna saper guardare come a colui che è capace di aprire brecce tra mondi separati e provocare processi di scambio, anche se nella forma del corto circuito. Egli ha il volto di Giano bifronte custode e protettore dei varchi, delle aperture, dei passaggi, l’unico a poter guardare dai due lati, da due prospettive, l’unico a godere di una sana distanza di sicurezza dal centro del proprio io-mondo. Abitare il confine non è un esercizio facile, perché per sua natura questa demarcazione ha un carattere molteplice, a volte ingannevole, e oggi anche molto meno riducibile al segno tracciato su una qualche cartina politica. Lo concepiamo come una linea che ha lo scopo di tenere distinti e separati territori, lingue, culture, identità ma piùÌ€ ci avviciniamo ad esso più ci accorgiamo che non rispetta il compito di funzionare da riduttore della complessità che pure (e soprattutto) gli abbiamo assegnato. Lì, sul confine, lingue culture e identità si incontrano e si incrociano. Si può decidere di abitare solo dalla parte del “noi” oppure di vivere con gli “altri”, non accanto ma insieme, stare su una delle due sponde oppure costruire ponti, come Langer ha insegnato. Tutte questioni di straordinaria attualità in un'Europa che ha congelato Schengen, fatto riabbassare la sbarra del Brennero e che pare in viaggio di ritorno verso gli stati nazionali. Un viaggio da concludersi ognuno serrando il proprio uscio di casa». Giorgio Mezzalira, membro della Fondazione Alexander Langer Stiftung, autore di pubblicazioni sulla storia regionale (Tirolo, Trentino e Alto Adige) del '900, insegnante, editorialista del Corriere dell'Alto Adige e del Corriere del Trentino – su Interni, aprile 2018. Articolo completo qui: https://www.alexanderlanger.org/files/inmovimento_aprile2018_interni_p22-25.pdf
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«Alessandro, per me, era bellissimo. Era la Gioia, che entrando in casa ci coinvolgeva e travolgeva, roboante e trascinante; ma era anche il lavoro fatto bene, analitico e profondo, e la denuncia, fatta con lo stile dell’annuncio che, nonostante tutto, un mondo migliore è ancora possibile. Ho sempre percepito, orgogliosamente, che la Sua essenza fosse molto ma molto migliore della mia. Oggi questo padre si sente orfano. Sento pesantemente scendere le ombre nella mia vita» scrive Stefano Leogrande agli amici nel comunicare la morte del figlio. Una morte che ha consumato la capacità di un padre di sopravvivere al figlio.
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«Nella notte tra il 25 novembre e il 26 novembre del 2017 è morto lo scrittore e giornalista Alessandro Leogrande. Il suo funerale è stato un momento impressionante: all’improvviso ci siamo resi conto di un’evidenza che era di fronte ai nostri occhi. Leogrande era il migliore tra gli intellettuali, i giornalisti e gli attivisti della sua generazione. Nicola Lagioia, scrittore e direttore del Salone internazionale del libro di Torino, mi disse: “Dobbiamo fare di tutto adesso per proseguire il lavoro che ha fatto, per provare a colmare quel vuoto”. Gli risposi che era materialmente impossibile. Nessuno di noi avrebbe avuto né il tempo di formarsi sulle migliaia di testi di storia, sociologia, filosofia, letteratura che lui aveva letto, mentre noi ci eravamo persi nelle mode letterarie e politiche del momento. Né la capacità e la voglia d’intrecciare le centinaia di relazioni che Leogrande ha intrecciato per scrivere i suoi articoli, le sue inchieste, cercando e conoscendo le persone giuste, quelle che non avevamo avuto l’intelligenza di riconoscere come le voci più interessanti per capire il nostro tempo e i nostri luoghi, le ultime generazioni degli operai dell’Ilva, le famiglie delle vittime del caporalato, i sindacalisti di origine straniera, i maestri imprevedibili. Ma non era solo questo. Leogrande non è stato soltanto il recettore e il traduttore della migliore cultura che l’Italia ha visto nascere: il meridionalismo di Gaetano Salvemini, il socialismo di Giuseppe Di Vittorio, il pacifismo di Danilo Dolci e Aldo Capitini. Goffredo Fofi, che gli ha fatto da fratello maggiore, fino ad ammettere il proprio di debito – la sua prefazione al libro postumo Dalle macerie è un colpo al cuore – è colui che di più sta portando quest’eredità dolorosa di cui avremmo voluto davvero fare a meno. Leogrande ha mostrato anche quanta chiarezza può produrre il rigore di una lettura marxista della società: qualunque ideologia va sempre interpretata su più livelli, sembrava ricordarci, individuando struttura e sovrastruttura. Nell’epoca dei giornalisti e degli scrittori innamorati delle mille fenomenologie, dell’impegno fatto di dichiarazioni d’intenti, è stato un modello rarissimo d’interprete e non di testimone. Ho imparato molte cose da lui quando era in vita: da lettore, da collaboratore, da editor, da amico. Ma visto che non c’è più, non è detto che si debba smettere di imparare.[…]» Christian Raimo su Internazionale, 25.11.2018. Articolo completo qui: https://www.internazionale.it/opinione/christian-raimo/2018/11/25/alessandro-leogrande-libri-articoli
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STAGIONE DEL MUTUO DISCORSO si colloca in questo movimento. Si pensa tappa e non traguardo. Rinsalda l’incontro come ricerca, il poetico come leva dell’agire, la differenza come spazio di reciprocità. Saluta la comune tenerezza tra i vivi e i morti, tributa gratitudine al pensiero degli altri, ne conserva la memoria perché materia incandescente e attualissima. Accoglie il movimento come azione di rinascita, abbandona la convenzione scavalcando la linearità prestabilita, la sua egemonia. Comprende che nell’amicizia più-che-personale/più-che-politica, è l’opera; che nell’attitudine al cammino, il lavoro dello sguardo e dell’ascolto è favorevole alla vita nuova.
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Occorre andare avanti e indietro nel tempo, per rintracciare nei pieni di memoria i contenuti dei suoi vuoti. Farsi visitare dalla “dialettica dell’immagine” che compie salti oltre e nonostante l’ordine cronologico, consente – richiede – di articolare nuove produzioni di senso. Occorre – ancora – agitare, inquietare lo sguardo e nutrire la reciprocità: farsi guardare dal guardato. Lo choc, ovvero quello spazio/tempo di distrazione da sé – suggerisce Benjamin – introduce all’opera, in esso l’opera agisce. Choc è “residuo mnemonico”; «mémoire involontarie può diventare solo ciò che non è stato vissuto espressamente e consapevolmente, ciò che non è stato, insomma, un’esperienza vissuta». Un’aspirazione, forse. Che come tale, produce nostalgia.
È in questo spazio che ho incontrato il lavoro di Tiziana Villani. La filosofia come atto di resistenza e gesto possibile di connessione. Seguo da varie lontananze/vicinanze, il lavoro di Tiziana, da decenni.
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Sulle ricerche di Mike Davies, Tiziana Villani focalizza un numero di Millepiani del 1997: Geografie dell’espressione, dove con «La geografia dell’espressione [si] propone un approccio, una pedagogia che chiama in causa le nostre capacità creative, di resistenza e di mutazione che riguardano il mondo-ambiente, il mondo che noi siamo. Diversamente da altri statuti disciplinari che hanno voluto gelosamente custodire una sorta di primato metafisico teso a stabilire e a codificare la realtà, la geografia dell’espressione si produce su di un piano di immanenza, essa è attraversata dai flussi dei saperi, dei corpi, dei linguaggi.»
Mi fu guida - quel testo - per realizzare Architetture della separazione, (Ars Electronica, Linz, 1997) una complessa installazione-performance interattiva che guardava alla Vöest-Alpine di Linz – l’imponente complesso industriale di acciaierie e industrie chimiche, creato da Hitler nel 1938 come industrie Hermann Göring Werke e tuttora attivo – come parte di un’eredità che lega l’oppresso all’oppressore. In Architetture della separazione la città si fece elemento di stratificazione drammaturgica, tra corpo femminile e cyberspazio.
È Tiziana Villani che rimette in circolo il corpo femminile all’interno dell’ecologia politica. Judith Butler, Donna Haraway senza diventare tendenze e simulacri – come può invece accadere se la "performatività" del discorso troppo le estetizza e neutralizza – sono con Tiziana elementi di un aggregato che fa del teorico, calda materia drammaturgica.
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Lungo strade diverse ho incontrato molti anni fa il lavoro di Gianluca Costantini. Vorrei incontrarti (Fernandel, 2005) suo primo racconto illustrato, entrò nelle visioni di un progetto curato a Rimini; più tardi Gianluca ed Elettra Stamboulis presentarono il loro L’ammaestratore di Istanbul (Comma22, 2009) a Libertà come bene supremo, le tre giornate di osservazione e critica del contemporaneo ideate e curate nel dicembre 2009, al Teatro Corte di Coriano (http://www.ib-arts.org/libretto.pdf). In quel contesto, di cui significativa fu la spiccata e visionaria vocazione pedagogica, fu memorabile il laboratorio su cinema del reale e attivismo con Eyal Sivan, la proiezione antologica delle opere e l’anteprima del suo Jaffa, the orange's clockwork, film-documentario impostato come saggio politico.
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Ho osservato il lavoro di Gianluca in tutto questo tempo, proseguire e mutare. Lo dirà lui stesso, c’è stata una soglia attraversata con un viaggio, nel 1999/2000, nella Sarajevo bombardata dalla guerra di Bosnia ed Erzegovina, che incide sulla messa a fuoco del suo lavoro. Inizia forse lì una militanza che fa virare il lavoro artistico da uno sguardo più interiore verso l’attivismo per i diritti umani.
Durante l’esplosione della pandemia da Covid19 e il conseguente lockdown, con la sospensione di tutte le attività culturali in cui è rientrata una prima e una seconda volta il progetto STAGIONE DEL MUTUO DISCORSO (perché allora sospeso e ora mutato, in questo autunno 2020), il lavoro di Gianluca ha continuato ad essere una finestra aperta sul mondo. Ha evaso la costruzione dell’ideologia domestica e la convergenza dell’informazione pubblica sul tema pandemico, per tenere alta l’attenzione anche sull’esterno.
Artista, attivista e illustratore impegnato da decenni in campagne umanitarie e d’interesse sociale, il lavoro di Gianluca spinge sul presente. La sua mano è instancabile nel vegliare quotidianamente le lotte civili e umanitarie spesso inosservate dai media mainstream. Sulla linea del graphic journalism più impegnato e irriducibile, ogni giorno Gianluca denuncia la violazione dei diritti umanitari con un disegno-ritratto della persona che quel giorno è perseguitata, incarcerata, minacciata, censurata o addirittura uccisa. La sua azione ci dice che il gesto, il tratto, il segno dell’arte, hanno la possibilità di difendere la vita e che – in determinate e precise modalità comunicative, per sintesi e con fulminante empatia – c’è nella costanza dell’impegno, una forza eversiva che logora i regimi.
Gianluca Costantini ha accolto l’invito a disegnare Alexander Langer e Alessandro Leogrande. Così noi, che accidentalmente siamo a loro postumi e che alla loro azione culturale e profetica ci sentiamo affini, abbiamo provato a scombinare il destino e immaginati parlarsi l’un l’altro e loro, insieme, a noi.
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TRE MANIFESTI in formato “stendardo” 140 x 200 cm. dedicati all’incontro tra i due, sono affissi a Modena dal 21 novembre al 5 dicembre 2020. Abbiamo quindi riflettuto e cambiato il formato del progetto ma nel mantenere le affissioni, anche se in una città che immaginiamo perlopiù deserta, abbiamo mantenuto il 21 novembre come avvio.
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Per l’intero pomeriggio del 21 novembre 2020 a Modena, allo spazio OvestLab e nella cornice del Festival Periferico, ci sarebbe stato un incontro con la partecipazione di Gianluca Costantini e Tiziana Villani, che abbiamo posto al centro di questo incontro come figure esemplari a loro volta; con loro e noi di Periferico, Giorgio Mezzalira/Fondazione Alexander Langer|Stiftung, Giovanni Accardo, e la presenza di Irene Aurora Paci, Lavinia Bianchi, Lisa Mazzieri, per confrontarsi in un incontro interdisciplinare, tansgenerazionale, aperto al pubblico e agli altri artisti del festival – http://collettivoamigdala.com/portfolio-page/periferico-2020/ – sul lavoro di ciascuno, il valore dell’Archivio come corpo vivente e rinarrabile, sulla città come testo collettivo e topologia del legàme attivo, sull’amicizia come dimensione della politica, e per rintracciare le pieghe, i legami e i varchi che connettono le figure di Langer e Leogrande, al presente e al futuro.
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L’incontro nello spazio fisico, ovviamente, non c’è. Reso impossibile dai vari DPCM che si sono succeduti da febbraio 2020 a oggi per la tutela della salute individuale e pubblica. Questo luogo allora, la cui natura elettrica non mappata dai cartografici non è meno vera e volenterosa dell’incontro previsto, avvia STAGIONE DEL MUTUO DISCORSO nel primo giorno delle affissioni pubbliche nella città di Modena e le accompagna per quindici giorni – tanto quanto il periodo della loro esposizione – con la pubblicazione quotidiana di due contributi, testo o audio: 1 di Alexander + 1 di Alessandro.
Partiamo da qui. Pensiamo questo luogo come un’occasione: di aggregazione tra fonti, di relazione, di ricerca. Luogo di incontro e di amicizia.
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Isabella Bordoni / nov. 2020
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