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TONINO PERNA

economista, sociologo, politico. Professore ordinario presso il Dipartimento di Economia, statistica, matematica e sociologia dell’Università degli Studi di Messina; collaboratore di Mimmo Lucano nella costruzione del modello Riace per l'accoglienza, nei processi di costruzione della sostenibilità economica e della moneta locale. 

Ha scritto diversi saggi sul rapporto economia-denaro-società, sulla dipendenza e il sottosviluppo, fra cui Mercanti imprenditori consumatori (Angeli, 1984); Lo sviluppo insostenibile (Liguori, 1994); 

Fair Trade (Bollati Boringhieri (1998); Destra e Sinistra nell’Europa del XXI° secolo (Altreconomia, Milano, 2006); Dell’usura 

(Rubettino, 2009). È stato direttore del C.R.I.C. - Centro Regionale d’Intervento per la Cooperazione, fondata a Reggio Calabria nel 1983 come Associazione di Volontariato Internazionale, nel 1986, viene riconosciuto come Organizzazione Non Governativa (ONG) dal Ministero degli Esteri e inizia un'intensa collaborazione con l'Unione Europea per l'Educazione allo Sviluppo e la Cooperazione Internazionale. Nel 1987, aderisce al COCIS (Coordinamento delle ONG per la Cooperazione allo Sviluppo). Attiva in particolare in Bosnia Erzegovina, Albania, Medio Oriente, Eritrea, America Latina, il CRIC fa parte inoltre dell'Assemblea delle ONG italiane; è associato al Comitato delle ONG per lo Sviluppo presso l'Unione Europea (CLONG), al cui interno nel 1993 si costituisce VOICE (Voluntary Organisations in Cooperation in Emergencies) per informare, collegare e concertare le ONG che lavorano in progetti di emergenza. Tonino Perna è stato inoltre presidente del Parco Nazionale dell'Aspromonte. Quella esperienza lo ha portato a pubblicare "Aspromonte. I parchi nazionali nello sviluppo locale" (Bollati Boringhieri, 2002). È stato il primo presidente del Comitato Etico-scientifico della Banca Popolare Etica di Padova.  

È vicesindaco di Reggio Calabria dal 29 ottobre 2020. 

Alex ti ho rivisto lì tra coni di roccia dai fianchi morbidi,

affusolati, sommerso da fiori appena nati,
immerso nel verde silenzio della tua terra; ed ho capito.

Io che guardo il mare ogni giorno al risveglio
che lo vedo ogni giorno cambiare
di colore, forme, direzione,
che ne ascolto il respiro profondo
e la gioia con cui brilla al tramonto
e la rabbia con cui ci restituisce il conto
(di plastica e metalli dal cuore pesante),
questo mare che non ha pace
che cancella i segni dell'uomo,
che nasconde nel suo ventre grandezze e misfatti
questo mare parla una lingua mutevole, inafferrabile, 
fatta di sussurri e tenerezze,
di grandi acuti ed assolute vacuità.

Tu che come pochi uomini del nord
amavi teneramente questo mar mediterraneo
non hai ascoltato o inteso la sua voce
le sue fragili parole che si insabbiano,
E non potevi
perché tu sei nato lassù
dove la fede scuote le montagne
dove ci sono sentieri che portano all'infinito
dove le mani dell'uomo fanno la Storia
dove ogni chiodo è conficcato per l'eternità.
Lassù, l'ho capito, c'è l'assoluto
che non accetta compromessi, sfumature, debolezze,
che non è ambiguo e mellifluo,
come questa massa liquida che scorre
limpida, in superficie, ed oscura nel profondo,
genuina e bugiarda, amabile ed indifferente,
eppure così vicina all'uomo.

 

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Luglio, 1998

Scusi, dov’è l’Albania occidentale?  

Attualità delle parole di Alex Langer

di Tonino Perna  
il manifesto, 30 agosto 2018

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Non so né quando né perché si sia diffusa in passato nel mondo l’immagine degli «italiani brava gente». Personalmente ho riscontrato più volte la diffusione di questo luogo comune in diversi paesi del Sud del mondo. Anche nelle nostre ex-colonie, dove abbiamo compiuto stragi indicibili (in Etiopia e in Libia soprattutto), è rimasta interiorizzata nelle popolazioni locali questa immagine positiva dell’italiano, che differisce tanto dalla crudeltà con cui sono stati identificati i tedeschi, la spocchia e l’arroganza degli yankees, la puzza sotto il naso dei francesi, e via dicendo.

Ci siamo così tanto cullati su questa immagine di noi stessi, come in uno specchio deformato in cui ci si sente alti e snelli, che ci siamo adesso svegliati improvvisamente in un paese che non sentiamo più il nostro. È da mesi, da quando si sono moltiplicati gli episodi di razzismo, da quando si è scoperto che il Ministro degli interni più razzista della storia della Repubblica ha un ampio consenso, che sento in tanti provare un senso di sgomento, come di fronte ad una catastrofe inaspettata.

Ed invece, il razzismo covava da molto tempo, e i buoni sentimenti degli italiani, la loro umanità, era solo di facciata perché, la storia lo dimostra, nel primo caso in cui sono stati chiamati ad accogliere profughi che scappavano da un disastro politico e sociale, dalla miseria di massa, si sono prontamente ribellati.

Questo succedeva nel 1991 quando era caduto il regime instaurato da Enver Hoxha e l’Albania era entrata nel caos, tutte le attività economiche erano state chiuse, lo Stato si era dissolto e la gente moriva di fame e di freddo (in quell’inverno furono tagliati per riscaldarsi decine di migliaia di alberi sulle strade, nelle ville comunali, dovunque ci fossero alberi vicino alle abitazioni.)

Alex Langer era allora europarlamentare e fu incaricato dalla Commissione Europea di recarsi in Albania. I suoi preziosi Report stanno adesso per essere pubblicati a Tirana grazie ad una raccolta che aveva curato il valente giornalista e scrittore Alessandro Leogrande, scomparso troppo presto.

Tra questi documenti abbiamo scelto un articolo pubblicato su il manifesto il 16 marzo del 1991 che offre un quadro realistico degli attori in campo e conferma la nostra tesi: i germi del razzismo e l’incapacità dei governi a gestire i flussi migratori era tutta presente fin dall’inizio. D’altra parte, per chi l’avesse dimenticato, nel marzo del 1997, mentre divampava la guerra civile in Albania, la “Sibilla” della nostra Marina militare speronava la nave albanese Kater i Rades causando 108 vittime. Una vera e propria strage di Stato. E non c’era Salvini, ma il governo Prodi.

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Tonino Perna

il manifesto, 30 Agosto, 2018 

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«20.000 rifugiati albanesi sembrano mettere in crisi l’Italia, e con essa l’Europa occidentale. Scappati fortunosamente da condizioni di vita – materiali e morali – che giudicano insopportabili e difficilmente migliorabili in tempi brevi, molti di loro presenteranno richiesta di asilo politico.» 

 

Scriveva il 16 marzo 1991 sul quotidiano il manifesto, Alex Langer. L'articolo viene riproposto da Tonino Perna il 30 Agosto 2018 e fa da sponda al suo scritto.  

 

«Paradossalmente -- prosegue Langer --  loro, che sono potuti uscire in virtù delle prime libertà conquistate dai «profughi delle ambasciate», dagli studenti e più in generale dalla piazza, devono ora sperare che l’Albania resti così poco democratica da giustificare la loro richiesta.

E l’Occidente che aveva brandito l’accusa all’Albania di non voler concedere ai suoi cittadini la libertà di lasciare il proprio paese (e di rientrarvi), è ora imbarazzatissimo per ogni nuovo passaporto che il regime di Tirana emette su richiesta dei suoi cittadini, a meno che non siano (come, del resto, succede in Italia) obbligati al servizio militare o a scontare una pena.

Per l’Albania significa che le guardie di frontiera non sparano più su chi vuole andarsene – ma in realtà quel passaporto non vale niente finché su di esso non verranno apposti anche i visti d’ingresso dell’Italia, della Grecia, della Francia, della Germania…, e sono visti difficilissimi da ottenere. In Italia ci pensa la legge Martelli: può entrare solo che ha un garante italiano che se ne assuma tutti gli oneri.

 

Così gli Albanesi sono doppiamente sedotti ed abbandonati: dapprima dai resti del loro regime vetero-stalinista, che dopo averli educati per una vita alla fierezza nazionale ed all’autarchia, ora dà la colpa alla siccità ed ai cattivi raccolti se un’intera nazione è ridotta alla mendicità. E poi dall’Occidente, che dopo aver postulato per loro libertà di espatrio, ora finge di scandalizzarsi quando scopre che gli albanesi non pensavano al turismo quando chiedevano passaporti.

È del tutto ozioso discettare se si tratti di profughi economici o politici. Nel termine stretto di «profugo politico» probabilmente oggi non rientrerebbe più quasi nessuno degli albanesi, e magari tra qualche settimana, con le elezioni, sarà finita la formale persecuzione politica.

Ma i giovani – quella generazione che dice di sì con infinita tristezza di essere cresciuta «senza vedere, senza sentire, senza parlare» – non si fidano molto dei miracoli della democratizzazione e temono contraccolpi.

"Le voglio scrivere qualcosa di me: io devo andare via da qui. Non resisto più. Qui si sopravvive appena. Vedere i miei fratelli alla fame, vedere poliziotti che minacciano, vedere la mia faccia che invecchia sempre di più, vedere i giovani affamati che fanno politica per riuscire forse a cambiare le cose… vedere ancora sangue sulle strade: non ce la faccio, mi aiuti a venire via da questo inferno, procuri a me ed al mio fidanzato un visto per l’Italia. Meglio aiutarci ora che venire a sapere domani del nostro funerale…".

Ogni settimana ricevo lettere come questa. Decine di migliaia di albanesi, soprattutto di giovani albanesi, vogliono cercare all’estero una fortuna che in patria disperano di trovare.

 

E gli Albanesi sono appena l’avanguardia di quello che tra poco da tutta l’Europa ex-comunista si riverserà verso l’Occidente. Vi saranno dei disperati, che – una volta che ormai il mercato è il loro destino – preferiscono buttarsi direttamente sul duro mercato occidentale. Vi saranno delle persone che non riescono ad immaginarsi un futuro diverso finché saranno circondati dalle stesse facce di prima.

E ci saranno soprattutto molti giovani che non hanno la pazienza di aspettare 20-30 anni, fino a quando nelle loro società potranno essere soddisfatte aspettative analoghe a quelle che maturano in Occidente e che ormai televisione e mercato universalizzano in tutta Europa (e forse in tutto il mondo) e che quindi i giovani albanesi, rumeni, russi ed ungheresi considerano legittime anche per se stessi.

 

Naturalmente l’emigrazione di massa non potrà essere la soluzione né per l`Albania, né per alcun altro paese dell’Est europeo (o del sud del mondo), così come l’asilo politico non può risolvere alla radice i problemi dei diritti umani e della democrazia. Ma come può l’Occidente pretendere di discriminare tra profughi economici e politici dell’est?

Una volta che – caduti i muri – la consapevolezza di comuni diritti e comuni aspettative si è generalizzata, e la «casa comune europea» viene presa sul serio dalla gente, l’Europa occidentale non può scordarsi improvvisamente di decenni di canti di sirene che aveva irradiato verso l’Est.

La cosa più semplice sarebbe – dice qualcuno all’Est – se tutti potessero fare come i tedeschi della DDR, che ad un certo punto potevano unificarsi con i tedeschi dell’Ovest, e che adesso dovranno insieme redistribuirsi pesi e vantaggi, diritti e doveri. Ma dov’è l’Ungheria dell’Ovest, la Polonia dell’Ovest, la Bulgaria dell’Ovest? Per gli albanesi, la risposta per ora è questa: l’Albania dell’Ovest è innanzitutto l’Italia.

E non hanno tutti i torti, se si ripensa alla dominazione fascista, così come tutta la gente dell’Est non ha torto quando ritiene di aver diritto ad una specie di indennizzo per i lunghi decenni in cui la loro oppressione costituiva il prezzo per la stabilità europea e la crescita dell’Occidente.

 

Ecco perché bisognerà attrezzarsi in tempo utile per non avere nuove disfatte di Brindisi, magari la prossima volta a Berlino (dove con i polacchi è già successo, in qualche misura) o a Vienna o a Trieste, o a Stoccolma… Attrezzarsi non per respingerli meglio, ma per offrire quel che decorosamente e seriamente l’Europa occidentale può offrire: da un lato una cooperazione consistente per aiutare la nascita ed il consolidamento di opportunità occupazionali, di studio, di informazione, di progettazione alternative all’Est, e dall’altro per consentire ad un numero (ovviamente non illimitato) di europei dell’Est – giovani soprattutto – la possibilità di passare alcuni anni della loro vita formativa o lavorativa all’estero, in modo da recuperare in tempi abbreviati qualcosa di quel vuoto di scambi, di contatti, di inter-azione che i 40 anni passati hanno pesantemente lasciato dietro di sé.

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