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2.12

L'EUROPA MUORE O RINASCE A SARAJEVO

 

LA FRONTIERA

Alexander Langer

Alessandro Leogrande

25 Giugno1995, La terra vista dalla luna

Siamo andati a Cannes, dunque, a manifestare davanti ai capi di stato e di governo, per la Bosnia-Erzegovina. “Basta con la neutralità tra aggrediti ed aggressori, apriamo le porte dell’Unione europea alla Bosnia, bisogna arrivare ad un punto di svolta!” Non eravamo tantissimi – qualche migliaio appena –, e dall’Italia prevalevano i pannelliani. Il grosso dei militanti della solidarietà per l’ex Jugoslavia non avevano saputo e forse neanche voluto. 

Dalla Spagna, invece, sono venuti in parecchi, dalla Catalogna soprattutto; dalla Francia molti comitati, pochi o pochissimi invece da Belgio, Olanda, Svezia, Gran Bretagna e Germania. Dei parlamentari europei molti avevano firmato - la maggioranza dei verdi e dei radicali, significativi democristiani e socialisti, qualche esponente della sinistra, diversi rappresentanti dei berlusconiani europei (“Forza Europa”, ora integrati nei gaullisti), liberali e regionalisti. Tanti bei nomi tra i firmatari, dall’ex commissario ONU José Maria Mendiluce (socialista spagnolo) a Otto d’Asburgo, da Daniel Cohn-Bendit a Corrado Augias, Francisca Sauquillo, Michel Rocard, Arie Oostlander, Giorgio La Malfa, Pierre Carniti, Glenys Kinnock, Antonio Tajani, Catherine Lalumière, Bernard Kouchner. Solo una ventina viene poi effettivamente a Cannes, il 26 giugno 1995. Oltre cento rifugiati bosniaci che dall’Italia vogliono raggiungere Cannes, restano invece bloccati alla frontiera di Ventimiglia: “ecco, ancora una volta l’Europa non ci vuole”, è l’amaro commento. Una manifestazione al confine rende almeno visibile il loro intento.

Dopo la manifestazione in piazza, ci riceve Jacques Chirac in persona, una dozzina di noi vengono ammessi a riunirsi con lui e con il ministro degli esteri Hervé de la Charette, mezz’ora prima dell’inizio del vertice: al nostro appello risponde che sì, liberare Sarajevo dall’assedio è una priorità, ma che non esistono buoni e cattivi, e che non bisogna fare la guerra. Ci guardiamo, la deputata verde belga Magda Aelvoet e io, entrambi pacifisti di vecchia data: che strano sentirsi praticamente tacciare di essere guerrafondai dal presidente neo-gollista che pochi giorni prima aveva annunciato la ripresa degli esperimenti nucleari francesi nel Pacifico!

Ed ecco quanto avevamo elaborato e firmato in tanti:

Dopo tre anni tutti noi, umili o potenti, assistiamo al quotidiano ormai banalizzato di una guerra i cui bersagli sono donne, bambini, vecchi, deliberatamente presi di mira da cecchini irraggiungibili o colpiti da obici mortali che sparano dal nulla.

 

Ci volevano dunque tre anni e, soprattutto, una presa di ostaggi dei caschi blu, fatto senza precedenti nella storia della comunità internazionale, perché leadership politiche e media europei riconoscano che in questa guerra ci sono aggressori ed aggrediti, criminali e vittime.

Tre anni di una politica inutile di “neutralità” che ci ha privato di ogni credibilità presso i bosniaci e di ogni rispetto da parte degli aggressori.

Ormai siamo arrivati a un punto di non-ritorno.

O tiriamo le conseguenze che si impongono e rafforziamo la nostra presenza - mandato dei caschi blu, presa di posizione netta di fronte agli aggressori - e, in fin dei conti, rifiutiamo di essere complici della strategia di epurazione e di omogeneizzazione della popolazione della Bosnia, oppure cediamo al ricatto intollerabile delle forze serbo-bosniache, ritirandoci dalla Bosnia ed infliggendo così alle Nazioni Unite la loro più grande umiliazione proprio mentre si celebra il cinquantenario della fondazione dell’ONU.

Oggi più che mai in passato dobbiamo armarci di dignità e di valori. E soprattutto ripetere quel “mai più” che risuona in tutta Europa dalla fine della seconda guerra mondiale.

 

Oggi più che mai in passato dobbiamo difenderci, in Bosnia, contro coloro che spingono all’epurazione etnica e religiosa come ideale politico e lo impongono perpetrando crimini contro l’umanità.

Se la situazione attuale è il risultato delle politiche disordinate, rinunciatarie e contraddittorie dei nostri governi, l’Unione europea in quanto tale è rimasta muta, impotente, assente.

 

Bisogna che l’Europa testimoni e agisca!

 

Bisogna che grazie all’Europa l’integrità del territorio bosniaco e la sicurezza delle sue frontiere siano finalmente garantite. Ma ciò non è, non è più sufficiente. Per recuperare un credito assai largamente consumato, l’Unione europea deve oggi dar prova di un coraggio e un’immaginazione politica senza precedenti nella sua storia. L’Europa può farlo, l’Europa deve farlo. Lo deve tanto ai bosniaci quanto a se stessa. Perché ciò è condizione della sua rinascita.

Andiamo dunque in tanti a Cannes a manifestare ai capi di Stato e di governo che:

  • le risoluzioni del Consiglio di sicurezza, in particolare quelle che garantiscono il libero accesso degli aiuti alle vittime, devono essere applicate;

  • l’assedio a Sarajevo e alle altre città accerchiate deve essere levato e le zone di sicurezza effettivamente protette;

  • i caschi blu non devono essere ritirati, il loro mandato non deve essere ristretto, al contrario la presenza internazionale in Bosnia fa rinforzata;

  • di fronte ad una politica di sedicente neutralità, noi stiamo dalla parte degli aggrediti e delle vittime;

  • nello spirito di solidarietà che deve animare l’Europa che noi vogliamo, la repubblica di Bosnia-Erzegovina, internazionalmente riconosciuta, venga invitata ad aderire pienamente ed immediatamente all’Unione europea.

 

L’Europa, infatti, muore o rinasce a Sarajevo.

 

Tuzla, maggio 1995

 

Esattamente un mese prima era stata bombardata la città di Tuzla: di una generazione si è fatta strage, oltre 70 giovani ammazzati durante il passeggio, centinaia di altri giovani feriti. Quattro giorni prima avevo congedato il sindaco (musulmano e riformista, cioè socialdemocratico) Selim Bešlagić, dopo averlo accompagnato per diversi giorni – insieme al deputato Sejfudin Tokić, suo compagno di partito – a Strasburgo, a Bolzano e a Bologna. Il sindaco Bešlagić e l’amministrazione “civica, non etnica” di Tuzla – come fieramente amano definirsi – sono considerati universalmente come riferimento di pace e di convivenza, di democrazia e di tolleranza. Bene: il giorno dopo il cannoneggiamento della sua città, Bešlagić mi ha inviato per fax copia del suo messaggio al Consiglio di sicurezza dell’ONU, con la preghiera di diffonderlo al Parlamento europeo. “Voi state a guardare e non fate niente, mentre un nuovo fascismo ci sta bombardando: se non intervenite per fermarli, voi che potete, siete complici, è impossibile che non vi rendiate conto”.

E se a Strasburgo, a Bolzano e a Bologna avevamo lavorato con gli ospiti per portare verso la sua realizzazione l’apertura di un’”ambasciata delle democrazie locali” a Tuzla (ne esiste già una a Osijek) e per progredire con altri progetti (acquedotto, parti di ricambio per fabbriche, impianto de-ionizzatore, scambi di giovani, ecc.), di colpo tutto questo perdeva non poco senso e speranza: a che poteva servire tutto ciò, se l’aggressione finiva per seminare l’odio etnico a Tuzla come a Mostar?

Si può fare qualcosa?

Certo, soluzioni facili non esistono. E guardarsi indietro serve a poco: non si troverà convergenza tra chi (come il sottoscritto) è convinto che l’Europa abbia fatto malissimo a favorire la disintegrazione della vecchia Jugoslavia e chi invece accoglieva con entusiasmo le proclamazioni di nuove indipendenze (anche da sinistra: il vocabolo magico “autodeterminazione nazionale” aveva un forte corso legale in molti ambienti democratici e di sinistra). 

Così bisognerà trovare una linea di demarcazione che aiuti a scegliere chi e cosa sostenere, chi e cosa contrastare. Questa linea non separa di per sé i serbi dai croati o i cosiddetti musulmani da entrambi, ma potrebbe essere un’altra: è la distanza che separa le diverse politiche dell’esclusivismo etnico (epurazione, espulsioni, omogeneizzazione nazionale, ghettizzazione, discriminazione ed oppressione delle minoranze, integralismo etnico o religioso...) dalle politiche della convivenza, della democrazia, del diritto, della possibilità di essere diversi e far parte di un ordinamento comune, con pari dignità e pari diritti, e senza che trovarsi in minoranza debba essere una disgrazia cui sfuggire quanto prima attraverso la costituzione di un’entità in cui si sia maggioranza.

 

Nella direzione di quanto si può fare per ricostruire condizioni di convivenza possibile, vi sono alcuni passi necessari. Tutti includono, innanzitutto, che si lavori non “per”, ma con gli ex jugoslavi, ed una proposta, una politica sarà tanto più credibile, quanto più riuscirà a convincere insieme dei democratici serbi e croati, bosniaci e macedoni, albanesi e sloveni, ungheresi ed istriani. 

 

Bisognerà quindi considerare:

  • Ristabilire il valore del diritto: non deve stupire l’insistenza di tanti cittadini dell’ex Jugoslavia sul Tribunale internazionale per i crimini contro l’umanità! La separazione delle responsabilità individuali dalle generalizzazioni etniche o politiche e la supremazia del diritto contro l’arbitrio (e quindi la possibile tutela dei deboli contro i forti) è di cruciale importanza. Come può altrimenti rinascere la fiducia in un ordinamento giusto? Quante volte nell’est europeo si chiede “quali sono le norme europee, quali sono gli standard europei?” per affrontare questo o quel problema! Si vuole una legge che non sia fatta ed imposta semplicemente dal più forte.

  • La politica di pace più efficace è oggi l’offerta di integrazione: più che qualunque altra proposta o piano di pace, funziona il semplice invito “vieni con noi, unitevi a noi”. La smania degli europei dell’est di entrare a far parte della NATO, si spiega facilmente come ricerca di sicurezza (e in fondo la NATO è riuscita a contenere contemporaneamente greci e turchi!). Se si vuole promuovere pace in una regione nella quale la precedente casa comune si è dissolta, l’offerta più credibile è quella di entrare sotto un tetto comune più ampio e meno condizionato dai rispettivi nemici preferiti. Ecco perché a tutti i paesi successori dell’ex Jugoslavia bisogna aprire le porte dell’Europa, a condizione che scelgano la convivenza, al posto dell’esclusivismo etnico, lo Stato democratico invece che etnico. (Naturalmente questa prospettiva implica che si lavori forte alla costruzione della casa comune europea, e che l’Unione europea come tale evolva rapidamente in tal senso.)

  • Offrire il massimo sostegno a chi decide di dialogare, a chi sa reintegrare: tutte le cosiddette trattative di pace hanno, in realtà, rafforzato i signori della guerra, legittimando la loro leadership, consolidando il loro potere, emarginando i loro avversari democratici. Niente o quasi nulla è stato fatto, invece, per sostenere le forze del dialogo, della reintegrazione, della ricerca di soluzioni comuni. Bisognerebbe definire dei veri e propri “premi o incentivi di reintegrazione” (bonus) e sanzioni all’esclusione etnica (malus); sostenere, p.es., quei comuni che permettono il rientro dei profughi o quei gruppi che organizzano iniziative pluri-etniche o pluri-confessionali o quei mezzi d’informazione che ospitano anche voci “degli altri”, ecc. Anche il sostegno ai disertori del conflitto, a coloro che sottraggono la loro forza personale alla guerra (e per questo meriterebbero l’asilo politico), dovrebbe far parte di questa strategia. Bisogna che il dialogo paghi e porti riconoscimenti e sostegni, e che l’esclusione etnica invece si attiri sanzioni e conseguenze negative.

  • Massimo sostegno quindi alle diverse reti organizzate che ricostruiscono legami: dai network di studenti e professori ai gemellaggi tra città, dai comitati per i diritti umani alle organizzazioni degli operatori dell’informazione. Molto potrebbe essere fatto anche tra l’emigrazione ex jugoslava.

  • Il ruolo della prevenzione del conflitto: ci sono oggi situazioni di pre-guerra, dove l’esplosione violenta del conflitto può essere, forse, ancora evitata (Kosovo, Macedonia, Vojvodina...), ma dove occorre concentrare grande attenzione, forte presenza internazionale, intensa opera politica e civile. In questi casi si tratta di influenzare l’evoluzione delle cose in un senso o nell’altro, e nulla dovrebbe essere troppo complicato o troppo “costoso” per non essere tentato, visto che in ogni caso un conflitto armato comporterebbe costi umani, politici, economici e materiali assai più alti. Sostenere in queste regioni le forze della possibile convivenza e scoraggiare l’esclusivismo etnico, dovrebbe avere oggi un’alta priorità nell’opera di pace.

  • Perché non organizzare almeno una parte del volontariato in corpo civile europeo di pace? Esistono oggi decine di migliaia di volontari della solidarietà con l’ex Jugoslavia, che in questi anni hanno accumulato conoscenze ed esperienza. Molti di loro sono frustrati dall’essere un po’ come la Croce rossa che può solo assistere le vittime, senza fare nulla per fermare la guerra. Oggi c’è una forte domanda politica nel volontariato, molti non si accontentano della funzione di tampone che oggettivamente ricoprono. Perché non trasformare questa straordinaria esperienza in un “corpo europeo civile di pace”, adeguatamente riconosciuto ed organizzato ed assunto da parte dell’Unione europea per svolgere - sotto una precisa responsabilità politica - compiti civili di prevenzione, mitigazione e mediazione dei conflitti, attraverso opera di monitoraggio, dialogo, dispiegamento sul territorio, promozione di riconciliazione o almeno di ripresa di contatti o negoziati, ecc.? Il Parlamento europeo si è recentemente (18-5-1995) pronunciato in favore di una simile “corpo civile europeo di pace”, e nulla potrebbe meglio assomigliargli che la ricca e diversificatissima esperienza del volontariato europeo per l’ex Jugoslavia, che in quasi tutti i paesi ha sviluppato straordinarie capacità, iniziative, competenza e generosità.

 

Ma...
Resta purtuttavia un “ma”, ed è quel “ma” da cui prende avvio l’appello di Cannes. Se, infatti, non arriva qualche segnale chiaro che l’aggressione non paga e che a nessuno può essere lecito partire per le proprie conquiste territoriali e conseguenti omogeneizzazioni etniche, allora ogni altro sforzo civile si sgretola o si logora. A Sarajevo la parola Europa è ormai associata alla parola četnik, e nulla nella politica europea lascia pensare che davvero si preferiscano stati democratici piuttosto che etnici.

Chi non vuole prendere atto di questa realtà, continua a mettere sullo stesso piano Karadzic e Izetbegovic (come fa ormai il manifesto), e sventola il pur assai promettente inizio di dialogo tra moderati bosniaci e serbi moderati di Pale come dimostrazione che esiste un’alternativa a ciò che viene chiamata la militarizzazione del conflitto.

Sejfudin Tokić è uno dei promotori del dialogo di cui sopra. Tokić è il compagno politico di quel Selim Belšagić che ci ricorda che chi non fa niente contro “i fascisti che ci bombardano, è loro complice”. Con che faccia continueremo a blaterare di ONU e OSCE come futura architettura di pace e di sicurezza, se poi i soldati dell’ONU diventano ostaggi ed il loro mandato consente loro solo la forza necessaria per proteggere se stessi ed i loro compagni?

© 2004-2020 Fondazione Alexander Langer Stiftung

2015

 

VEDERE, NON VEDERE

Si chiamava Shorsh, e l’ho conosciuto alla fine degli anni novanta. Sarà stato il 1998 o il 1999, al tempo della prima ondata di profughi curdi verso l’Italia, un fiume di uomini e donne, in gran parte giovani, in fuga dalla follia omicida di Saddam Hussein.
Una sera, nella casa di studenti dove vivevo, dalle parti di Ponte Milvio, Shorsh ci fece vedere una videocassetta. La conservava nella tasca del giaccone, tra fogli spiegazzati, fitti di appunti in varie lingue, scontrini, una piantina di Roma con alcune strade cerchiate a penna. La vhs era senza custodia. Quando la inserì nel videoregistratore, ci disse solo che riguardava i curdi. “Riguarda noi.” Gliel’aveva data un amico a Termini, nel piazzale davanti alla stazione, la sera prima.

 

Poi le immagini partirono, e di colpo il tempo si fermò. Non avevo mai visto niente di simile. Il cameraman si aggirava tra le case basse di un villaggio di campagna, avanzando lungo strade prive di asfalto. Non una parola di commento, non un rumore di sottofondo, a parte quello cadenzato delle scarpe sulla terra. Poi all’improvviso, due corpi accasciati, immobili, il volto congestionato, davanti alla porta di legno scuro di una casa. Non erano gli unici cadaveri: una selva di corpi, ora seduti ora stesi, era riversa nelle strade, tra la polvere. Anche quando l’uomo con la telecamera in spalla entrava senza fiatare in una delle case basse, la situazione non variava. Negli spazi angusti, tra tavoli, sedie, i pochi tappeti, altri corpi erano ammucchiati a terra.
Quelle scarne immagini ritraevano il massacro di Halabja, una cittadina curda dell’Iraq fatta gasare nel marzo del 1988, ai tempi della guerra con l’Iran. Non lo sterminio nel suo compiersi, ma la quiete dopo la furia, la fine della vita dopo la furia. Ritraevano la morte nella sua oscenità.

 

Più tardi, nei processi contro i vertici dell’esercito iracheno sarebbe stato definito un atto di genocidio, in cui avevano perso la vita cinquemila persone. Cinquemila uomini, donne, vecchi, bambini, assieme ai loro animali, vacche, asini, cani, cavalli, che nel video apparivano numerosi, riversi per terra proprio come gli esseri umani al loro fianco. L’uomo con la telecamera sembrava indugiare soprattutto sui cavalli, i denti spalancati, le mosche intorno alle narici ormai secche, le gambe piegate come fossero di gomma.
In quel momento, dalle parti di Ponte Milvio, quelle crude immagini che ci piovevano addosso senza il minimo commento, senza una spiegazione, mi sembravano del tutto prive di pudore, infinitamente sgraziate, incomprensibili al di là del dato evidente della morte di massa, del perpetuarsi di una carneficina talmente assoluta da apparire lontana dal nostro orizzonte. Quanto meno da quello di un gruppo di studenti italiani, raccolti in una casa romana, sul finire del Novecento.


Mi accorsi, di colpo, che le stavo osservando senza essere in grado di interpretarle. Eppure quelle immagini per Shorsh erano tutto. Non erano un prodotto della Storia, erano il suo presente. Non erano una riflessione teorica, erano carne viva. Spiegavano nel dettaglio i motivi della sua fuga in Italia, svelavano un passato di violenze inenarrabili a cui aveva assistito da vicino, a cui parenti o amici avevano assistito, quando non ne erano stati vittima. La vhs che le custodiva era uno scrigno sacro; e il suo nastro, che a un certo punto Shorsh fissò come una reliquia, prima di soffiarci sopra per liberarlo di ogni minimo granello di polvere, era prezioso più dell’oro.
Dalla sera prima, non l’aveva più tirata fuori dalla tasca del giaccone. A notte inoltrata togliemmo la custodia di plastica dura a uno dei tanti film che avevamo in casa e la regalammo a Shorsh. Avrebbe potuto preservare quell’unico filo che ancora lo legava al suo mondo.

 

Ho impiegato molto tempo per comprendere il potere di quelle immagini. Ma questa difficoltà a parlarne non riguarda solo la violenza di quel giorno preciso, di quel momento. Riguarda anche il viaggio di Shorsh verso la placida Europa, la sua condizione di profugo negli anni successivi, e quella serata a Ponte Milvio.

 

Lavoravamo da un paio di mesi come volontari in una scuola d’italiano per immigrati sorta all’interno di un centro sociale lungo la Prenestina, dall’altra parte della città. In breve tempo le aule si erano riempite di decine di profughi come Shorsh, e ci era parso di soccombere di fronte alla crescente difficoltà di sciogliere le reciproche incomprensioni linguistiche. Molti di noi non avevano la minima competenza didattica, anche se ci affannavamo a riempire cartelloni con le coniugazioni verbali e le frasi base delle conversazioni più elementari. Non durò a lungo. Ma con alcuni di loro, e Shorsh era tra questi, stringemmo amicizia, facendo proseguire i nostri incontri, e le nostre chiacchierate, ben al di là delle poche ore di lezione negli stanzoni gelidi del centro sociale.
Per la prima volta, quella sera, ebbi la sensazione di quanto fosse difficile capire la vita prima del viaggio, l’ammasso di eventi che precede ogni partenza, per decine, centinaia di migliaia di migranti che si riversano ai confini della frontiera europea. Eppure nessuno inizia a vivere nel momento in cui l’imbarcazione che lo trasporta appare davanti alle nostre coste: il viaggio ha avuto inizio prima, anche anni prima, e i motivi che l’hanno determinato sono spesso complicati.
Non sono tanto le motivazioni individuali ad apparire incomprensibili. Chiunque parta lo fa per scappare da una situazione divenuta insopportabile, o per migliorare la propria vita, per dare un futuro dignitoso alla moglie o ai figli, o semplicemente perché attratto dalle luci della città, dal desiderio di cambiare aria. No, non è questo ad apparire incomprensibile. Ad apparirci spesso incomprensibili sono i frammenti di Storia, gli sconquassi sociali, le fratture globali che avvolgono le motivazioni individuali, fino a stritolarle. Incomprensibili perché provengono letteralmente “da un altro mondo”.
Quella sera, la violenza sui curdi di Halabja mi appariva quasi pornografica nella lenta successione di corpi inermi di uomini e animali, perché nulla sapevo della loro storia, nulla sapevo degli omicidi di massa perpetuati dal regime di Baghdad. O meglio non ne sapevo abbastanza. Non abbastanza per poter decifrare quei fotogrammi.
Credo che sia questo uno dei principali motivi per cui ci è difficile comprendere il “popolo dei barconi” che giunge sulle coste europee. Ci è facile utilizzare la categoria di “vittima”, almeno quando ci liberiamo dell’ossessione di essere invasi. Ma quella categoria, a sua volta, appare indistinta, quasi priva di carne e storia, proprio come le immagini di Halabja che scorrevano senza commento davanti ai miei occhi in una sera apparentemente simile a tante altre.

Ho frequentato Shorsh per un po’. I baffi folti e spessi, le guance scavate, la sigaretta sempre in mano, i pantaloni di una taglia più grande sulle gambe, che si intuivano essere molto magre. Ci teneva a far sapere che il suo nome, in curdo, vuol dire rivoluzione.
Era un ottimo cuoco, benché mangiasse molto poco dei piatti che preparava con tanta cura. Ricordo che una volta, al San Camillo o al San Giovanni, subì un’operazione chirurgica di cui si vergognava. Non ne parlava volentieri. Erano state riscontrate lesioni all’ano, che gli producevano costantemente delle emorroidi. Erano la conseguenza delle torture subite nelle carceri irachene: diceva di essere stato costretto a sedersi ripetutamente con le mutande abbassate su una bottiglia di vetro. All’inizio, davanti al riso degli aguzzini, aveva provato solo vergogna. Ma poi un dolore acuto si era sostituito al senso di nausea quando in due lo avevano afferrato per le spalle e lo avevano schiacciato sul collo della bottiglia. Era stato proprio per quello che, qualche mese dopo, aveva ottenuto l’asilo politico in Italia. Shorsh era a tutti gli effetti una vittima di tortura.

Sono passati molti anni, e non so che fine abbia fatto. Tempo fa ho appreso da un amico comune che, dopo la cattura di Saddam nel 2003, è voluto tornare in Kurdistan. Ha fatto a ritroso il viaggio che lo aveva portato in Europa, nella speranza di ricostruirsi una nuova vita lì.
Forse si è perso nei meandri del nuovo Iraq, tra le convulsioni di un lunghissimo dopoguerra, presto sprofondato in uno stato di feroce anarchia, dal cui pantano sono emersi i tagliagole dello Stato islamico. O forse è riuscito a rimanere a galla.
Ma sono solo ipotesi. Di Shorsh non ho saputo più niente. E ora mi sento in colpa. Non perché “occuparmi” di lui fosse un obbligo. Mi sento in colpa per il semplice fatto di non aver capito molte cose, prima che scomparisse nel nulla. Come dal nulla era venuto.

È così che ho sviluppato questa ossessione. Provare a rendere quel nulla un po’ meno nulla. Provare a oltrepassare la categoria di “vittima”, che non spiega niente della complessa vita degli esseri umani. Provare a dipanare i fili di eventi che a prima vista paiono incomprensibili nel loro ginepraio di violenza, lutti, oppressione, che pure determina la vita di tanti.
Sono passati più di quindici anni da quella sera a Ponte Milvio. Proprio frequentando Shorsh e alcuni curdi arrivati a Roma negli stessi mesi, ho avuto la percezione che l’attraversamento della frontiera europea stesse diventando un fatto globale. Che a bordo dei barconi che allora si riversavano sulle coste pugliesi, così come in seguito si sono riversati su Lampedusa e sulle coste siciliane, non c’erano solo i profughi dei Balcani, o gli albanesi in fuga dal crollo di una dittatura claustrofobica, ma gente che veniva da un Oriente più lontano.
C’era un Est molto più a est dei Balcani. E c’era un Sud molto più a sud del Maghreb. La lontananza di quei paesi e la scarsa conoscenza che ne avevamo spesso sconfinavano colpevolmente nell’esotismo. Il business degli scafisti si è fatto imponente proprio allora: quando le coste italiane sono diventate la porta per accedere all’Europa, e l’Europa ha provato a erigere una serie di muri davanti alle proprie frontiere.


In questi anni ho conosciuto tantissimi uomini e donne come Shorsh. Di molti ho perso le tracce. Tanti sono ripiombati nel nulla prima che potessi saperne di più. Alcuni sono morti proprio quando pensavano di avercela fatta a lasciarsi la Storia alle spalle.
Da qui la mia ossessione. Se le coste europee non possono essere che frontiera, tanto vale provare a fissare sulla sabbia alcuni dettagli, alcuni brandelli di esistenza, che altrimenti verrebbero meno col venir meno delle persone. La frontiera è un termometro del mondo. Chi accetta viaggi pericolosissimi in condizioni inumane, attraversando i confini che si frappongono lungo il suo sentiero, non lo fa perché votato al rischio o alla morte, ma perché scappa da condizioni ancora peggiori. O perché sulla sua pelle è stato edificato un mondo che gli appare inalterabile.

 

 

La Frontiera (primo capitolo) 

© Giangiacomo Feltrinelli Editore, Milano, 2015, 2017

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