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3.12

IVAN ILLICH, IL PLURILINGUE NON SI DEFINIREBBE CERTO UN "ECOLOGO" O UN "VERDE"

 

LA NUOVA CITTADINANZA 

Alexander Langer

19 Ottobre,1985

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Eppure la sua visione delle cose è un forte punto di riferimento per molti verdi, e parecchie sue speranze sono legate ai movimenti verdi. Nei confronti dei quali sa anche essere molto scettico, soprattutto per quella loro tendenza a voler costruire a tavolino il nuovo mondo, guardando solo al futuro e non tenendo conto del passato. 

E forse anche perché attingono troppo dai libri e troppo poco dagli usi e costumi e dalle saggezze popolari. E per certe tentazioni di ritorno alla natura che saltano a piè pari cultura e civiltà. Ma, infine, parla di "ecologia politica" in tutto il mondo, dal Messico al Giappone, dagli Stati uniti all'Europa, ed insiste su quel "politico" con fermezza, tacciando di ingenuità molti verdi. Perché chi non sa vedere la storia, non capisce la dimensione politica dei rapporti tra gli uomini, e neanche con la natura, par di capire. L'uomo di cui si parla è Ivan Illich, prete – anzi, col grado di “monsignore”–  cattolico, ex-rettore (a meno di 30 anni) dell'Università di Porto Rico, attualmente professore di non so quante discipline (tra cui "Storia del sistema fognario") in non so quante Università, animatore del Centro di documentazione inter-culturale di Cuernavaca (in Messico), autore di numerosissimi libri e saggi, in varie lingue, ed uno dei più radicali critici della civiltà tecnologica, cui oppone una visone di convivialità non elaborata nel quadro di alcuna utopia, bensì ricavata da una attenta esplorazione storica di quanto nelle diverse civiltà si è sviluppato prima che il mercato tutto mangiasse e tutto omologasse. 

 

Illich non vive in una caverna, non disdegna la macchina o l'aereo per spostarsi (anche se preferisce il treno), non sembra praticare nessun genere di salutismo nella sua alimentazione o nel suo stile di vita. Ma da anni non legge i giornali: si vede che l'attualità quotidiana gli appare fatua ed inconsistente, mentre dalla ricerca – che so – sulla formazione del vincolo coniugale nel diritto canonico del XII secolo riesce ad illuminare più aspetti della vita (della considerazione del corpo, dei rapporti interpersonali, del governo delle coscienze, ecc.) che non dalla quotidianità politica. Quando Illich si trova a contatto con il suo pubblico, preferisce in genere una forma seminariale. Abborrisce e rifiuta i mass-media (persino un fotografo non-avvoltoio può farne le spese…), non rilascia interviste, e non accetta il ruolo del conferenziere che “dà la linea”. Piuttosto cerca un dialogo che sarà tanto più ricco quanto più i diversi partecipanti interverranno con domande o proprie osservazioni, basate però su precise conoscenze (indagini, letture, riferimenti precisi), non su opinioni ed idee. 

 

Insomma: un maestro che svolge con gusto una funzione didascalica, ma che pretende che si intervenga in maniera fondata e documentata e che non accetta di trasformarsi in "tuttologo", per quanto ampi e vari siano i suoi campi di indagine (dalla scuola alla salute, dall'acqua al computer, dai diritti civili alla percezione del corpo...). Qualcuno ne rimane deluso e lo trova “poco organico”, altri ne ricavano spunti decisivi per orientare la propria visione del mondo. L'incontro con Ivan Illich a Bolzano, avvenuto in pubblico qualche mese fa, conferma le caratteristiche del protagonista. Dovunque egli trovi pane per i suoi denti, si sveglia subito una sua lucida curiosità. Ed invece che parlare di ambiente, di risorse, di tecnologia o di salute – come una parte dei convenuti magari si aspettava – Illich percepisce subito l'importanza fondamentale che nel Sudtirolo riveste il problema della lingua, dei confini tra lingue e culture, del confronto tra loro, delle reciproche pretese di superiorità o di esclusività. 

 

E così comincia a raccontare di un aspetto particolare di se stesso, che diventa poi anche il centro della discussione: si parla del multilinguismo. «Ivan, come mai non sei pazzo, come mai non risenti della schizofrenia tipica dei plurilingui? Così mi sento domandare sempre più spesso, da quando sono in voga certe teorie secondo le quali il possesso di più lingue porta alla scissione della personalità. Ed io ci ho pensato e voglio formulare proprio qui un'ipotesi che vorrei approfondire: che cioè l'uomo non sia naturalmente destinato ad apprendere una sola lingua, ma sia – per così dire – “naturaliter” plurilingue. Come in tanti altri campi, si tratta di rovesciare una presunta verità lapalissiana, dimostrando che essa viene smentita dalla storia. 

E infatti l'idea dell'uomo “naturalmente monolingue” è un'idea moderna, europea e colonialista. E così come l'uomo solo molto tardi finisce, termina, con i confini della sua pelle, perdendo via via tutta quell'aura intorno fatta di odori personali, di specifiche forme di apparenza e così via, anche il confine tra le lingue è diventato cartesianamente netto e artificioso. Come in tanti altri: per esempio con la recinzione e appropriazione privata dei pascoli o di altri usi civici».

 

Ivan Illich sviluppa una sua idea-forza: la maggiore ricchezza, complessità e varietà delle società più conviviali contrapposte alla forzosa riduzione a linearità, ad univocità, a fungibilità, a risorsa mercificata che si ritrova nelle società dominate dal mercato. lo stesso discorso che vale sui rapporti tra uomo e natura: finché gli uomini si trovano inseriti in un contesto ambientale di dimensioni conviviali (pre-industriali, sostanzialmente), non esiste la “scarsità” se non in occasione di particolari eventi clamorosi; ma per il resto i bisogni umani sono commisurati a ciò che la terra può offrire, quantitativamente e qualitativamente, con una grande ed irripetibile varietà da luogo a luogo. Lo spazio “vernacolare”– nella lingua, negli usi e costumi, nell'accesso comunitario ai beni comuni come aria, acqua, bosco, pascolo, ecc., nei rapporti umani, nel perimetro delle amicizie, e così via – è per Illich la dimensione “naturale” dell'uomo. Dove “naturale” non è una nozione biologica ma eminentemente storica. 

La “scarsità”, la necessità di scavalcare tempo e spazio con le tecnologie della velocità e della comunicazione, gli squilibri... tutto questo è il frutto velenoso di un processo di rotture, di separazioni, di definizione di confini nitidi tra “proprio” ed “alieno”, tra lingua e dialetto, tra bene d'uso e bene di scambio, tra ambiente e risorsa, tra norma e devianza, tra salute e malattia, tra comunità ed istituzione. 

«Ricreare un'aura di convivenza, di tolleranza dell'alterità (anche linguistica) è il presupposto per la riscoperta del plurilinguismo: questo conta molto di più che non i corsi di lingua o le invenzioni scolastiche. Pensate quante caratteristiche del parlare si sono cancellate e uniformate: dall'intonazione agli accenti, dal tono alla voce, dalla melodia alla frequenza dei vocaboli… le lingue sono molto di più di quante non ne segni la linguistica, le cui pretese ideologiche devono essere smascherate come tutte le altre pretese di delimitazioni scientifiche fatte in realtà in nome dell'economia, per rendere più misurabile, amministrabile e dominabile il mondo», dice Illich. 

Ecco un esempio – particolarmente inconsueto – di un'opera di "ecologia politica", come Ivan Illich la definisce: ripristinare, nelle nostre menti, prima di tutto, e con una solida base storica, di quel che è stato, non di quel che potrebbe essere, la multiforme varietà del mondo, senza cedere al ricatto della semplificazione distruttiva in nome di imperativi economici.
 


Il racconto dell'incontro con uno dei “padri” dell'ecologia politica è apparso su La nuova Ecologia del 19 Ottobre 1985

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© 2004-2020 Fondazione Alexander Langer Stiftung

Alessandro Leogrande

Dicembre, 2016

 

Sull’ultimo numero di “Tempo presente”, la rivista diretta di Ignazio Silone e Nicola Chiaromonte tra il 1956 e la fine del 1968, Silone scrisse un editoriale di commiato, sotto forma di racconto, intitolato “Temi per un decennio”.

 

Il decennio a cui Silone si riferiva era quello futuro, non quello passato, che pure era stato cruciale, in Italia e nel mondo. Nel decennio successivo, quello in cui “Tempo presente” non ci sarebbe più stato, uno dei temi centrali su cui riflettere per Silone sarebbe stato l’acuirsi delle contraddizioni interne al mondo comunista.

 

Prima fra tutte: la creazione di un’enorme classe burocratica che avrebbe oppresso sempre di più, anziché liberare dalle sue condizioni, la classe operaia. Quelle contraddizioni hanno poi raggiunto il punto di rottura nel decennio ancora successivo, vent’anni dopo cioè il racconto-editoriale di Silone, gettando le basi del mondo in cui siamo immersi. Il mondo dopo la caduta del Muro, e – per essere più precisi – il mondo dopo la caduta dell’assioma della “fine della Storia”. Quali potrebbero essere i temi per il prossimo decennio? Quali contraddizioni si acuiranno, quali raggiungeranno il punto di rottura?

 

Mantenendo l’attenzione sulla sola Italia, una delle maggiori contraddizioni riguarda sicuramente la scissione di fondo tra l’aumento costante della popolazione straniera (o di origine straniera) e la loro scarsa, o nulla, rappresentazione politica.

 

Secondo il Dossier Statistico Immigrazione 2016, gli stranieri nel nostro paese sono circa 5 milioni e mezzo di uomini e donne (a cui vanno aggiunti un milione di cittadini di origine straniera che hanno già acquisito la cittadinanza italiana). Provengono in maggioranza da Romania, Albania, Marocco, Cina, Ucraina. Costituiscono l’8,3% della popolazione residente nella penisola, ma in una regione come l’Emilia Romagna arrivano addirittura al 12%.

 

Quando il Muro cadeva, e il bracciante sudafricano Jerry Masslo veniva ucciso a Castelvolturno, facendo scoprire all’Italia nello stesso tempo lo sfruttamento dei campi e il razzismo, erano ancora poche centinaia di migliaia di persone. È evidente che nell’arco di un quarto di secolo è avvenuta una profonda mutazione del paese.

Eppure alla crescita della popolazione di origine straniera, alla creazione di una nuova classe operaia e bracciantile straniera nel nostro paese, all’affermarsi di un ceto di piccoli imprenditori e commercianti, all’emergere delle seconde e delle terze generazioni residenti, non fanno ancora seguito adeguate forme di rappresentanza, che vadano al di là di tutte quelle espressioni puramente simboliche come i consiglieri comunali aggiunti (e quindi privi di voto).

 

La classe dirigente italiana (intendendo per classe dirigente non solo la classe politica, ma anche i vertici delle istituzioni e dei ministeri, i giornali, le università, le tv, i sindacati, le grandi aziende, le fondazioni, gli enti pubblici e privati…) è ancora prevalentemente bianca, di madrelingua italiana. Salvo rare eccezioni (la più nota, e allo stesso tempo isolata, è costituita dal ministro dell’integrazione del governo Letta, Cécile Kyenge) è ancora unicamente bianca, di madrelingua italiana.

 

Da dove nasce questa differenza profonda dal resto dell’Europa, dalla Francia, dalla Germania, dalla stessa Gran Bretagna che è uscita dall’Ue, dai paesi del Nord Europa? Cosa fa dell’Italia un paese ancora così impermeabile all’apertura verso la società plurale dei propri gruppi dirigenti?

 

Curiosamente chi parla di “casta”, non sottolinea mai questo aspetto – realmente castale – del potere e del sottopotere nostrani. Era molto più cosmopolita ed eterogenea la composizione delle camice rosse di Garibaldi durante la Spedizione dei Mille che non quella di qualsiasi consiglio comunale dalle Alpi alla Sicilia.

 

Eppure la contraddizione, a volte, emerge. Basta collegare tra loro eventi solo apparentemente distanti. Il movimento che è sceso in piazza in molte città italiane per chiedere una nuova legge sulla cittadinanza che superi gli steccati dello ius sanguinis è fatto soprattutto da ragazzi delle cosiddette seconde generazioni. Dai figli cioè, cresciuti e sovente anche nati in Italia, di chi ha fatto per primo il Grande Viaggio. E, a tutti gli effetti, loro sono “anche” di madrelingua italiana.

 

Un’altra contraddizione evidente emerge nel lavoro dei campi o nei poli della logistica. Laddove più gravi e “avanzate” sono le forme di sfruttamento lavorativo, più cosmopolita è la composizione di quella che a tutti gli effetti è una nuova classe operaia. Laddove lo sfruttamento poi raggiunge forme ulteriori, è facile constatare come essa sia radicalmente non-italiana. È così nei campi dove si raccolgono le arance o i pomodori. È così per i facchini che lavorano in subappalto per le grandi multinazionali di spedizioni pacchi.

 

La vicenda di Abd Elsalam, il facchino egiziano di 53 anni, travolto da un camion durante un blocco operaio davanti allo stabilimento della Gls di Piacenza, lo rivela appieno. Al di là degli eventi che hanno portato alla sua morte, e al fatto che presumibilmente il camionista che lo ha investito è stato esortato ad aggirare il picchetto, ciò che stupisce sono le condizioni di lavoro. Il contesto. Nell’azienda dove ha lavorato, su 140 dipendenti, non c’è un solo italiano. Sono tutti egiziani, algerini, tunisini, albanesi, macedoni… Pertanto non c’era neanche un solo italiano a prendere parte al blocco contro la Gls per il mancato rispetto di un accordo sindacale, la sera in cui è rimasto ucciso.

 

Proprio in questi contesti di lotta più aspra che altrove, sta emergendo una nuova generazione di delegati sindacali stranieri – sia nei sindacati confederali, sia in quelli di base. Iniziano a essere loro la prima forma di rappresentanza di un’Italia diversa. Ma, da qui a una rappresentanza più vasta ancora ce ne vuole. Finora, questo primo livello di emersione della voce dei nuovi italiani non ha ancora superato la dimensione locale o quella dei sindacati di categoria.

 

Allo stesso modo, in altri versanti, sono ancora scarsamente permeabili i piani alti della politica e della cultura. È difficile dire se nel prossimo decennio la contraddizione raggiungerà il punto di rottura, ma sicuramente essa si acuirà fino ad esigere una trasformazione degli assetti più asfittici della società italiana. Non sarà un percorso facile. Esso sarà costantemente interrotto e osteggiato dalla vecchia Italia, da quel cuore oscuro che teme, quasi con orrore, che il monolite possa essere scalfito.

 

In fondo, chi come a Goro e Gorino organizza barricate contro l’accoglienza di una decina di donne e bambini è a questa idea di “contaminazione” che si oppone ferocemente (nel XXI secolo!). Ma, se sostenuto, questo percorso potrà aprire le porte a uno scenario diverso. La rappresentanza sindacale sarà ancora più plurale, e il movimento per una nuova legge sulla cittadinanza otterrà i suoi obiettivi. Forse ci saranno più assessori e capiredattori, presidi e docenti, deputati e conduttori di origine non-italiana… Non necessariamente, beninteso, avranno posizioni progressiste, o in linea con una ulteriore maggiore apertura della società italiana.

 

Alcuni potranno sostenere posizioni conservatrici o populiste, se non addiritture reazionarie, come buona parte della società italiana. Ma, proprio perché ogni società è un organismo complesso, è normale che sia così. Anormale semmai è pensare che esistano dei blocchi ben identificati e immodificabili, e che gli individui siano pedine che vanno a inserirsi dentro caselle prefissate. Poiché negli ultimi anni l’Italia, proprio mentre diventava un paese più plurale, è anche diventato un paese molto più rigido nei processi di mobilità sociale, è giunta l’ora di far saltare il tetto di cristallo. Altrimenti, alla fine del decennio, ci troveremo con un fossato enorme tra le nuove caste e il paese reale.

 

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© Lo Straniero dicembre-febbraio 2016/2017 

n° 200 e ultimo, in seguito su

© Minima&Moralia, 1 Marzo, 2017 

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