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RACCOGLIERE E ONORARE I RIFIUTI, UNA SCELTA DI CIVILTÀ

 

ROSARNO OGGI: UN REPORTAGE

Alexander Langer

Alessandro Leogrande

27 Novembre,1992

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Caro e venerato Abbé Pierre, cari amici di Emmaus,
da quando la grave crisi ambientale e la progressiva perdita di integrità della biosfera sono all'attenzione di tutti, nuovi luoghi comuni sono entrati nel nostro pensiero e nel nostro linguaggio. Spesso – secondo lo spirito del tempo – si tratta di luoghi comuni che contengono una forte dose di fiducia tecnocratica, anche quando affrontano drammatiche emergenze sociali o ecologiche. Così si parla, per esempio, della necessità di “regolare e contenere i flussi migratori”, di “ridurre l'impatto ambientale”, di “ottimizzare il rapporto tra input e output nell'uso delle materie prime”, di rispettare la “capacità di carico del territorio”, e così via sentenziando. 

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In una sospetta mescolanza di termini e di obiettivi – alcuni dei quali più giusti, altri assai meno – questi luoghi comuni generano comunque l'idea che ormai sia questione di tecnologie e metodologie più adeguate per dominare la crisi dell'ambiente e ripararne i guasti. Anche il problema dei rifiuti, crescente e ancor troppo poco avvertito incubo del nostro tempo, viene facilmente categorizzato così, e spesso con la migliore delle intenzioni: “evitare, minimizzare, selezionare, recuperare, riciclare i rifiuti” è diventata la sintesi largamente usata ed accettata di una rilevante branca delle politiche ambientali. 

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Ecco che si parla – meritoriamente, s'intende – di risorsa rifiuti, di borsa rifiuti, di gestione rifiuti, di smaltimento rifiuti... ed ecco che compaiono nuove amministrazioni, imprese, industrie, saperi, tecniche, pubblicità, nuovi esperti, nuove riviste specializzate, nuovi convegni, nuove cattedre universitarie, nuovi mercati e nuove leggi.

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Si fa strada la consapevolezza che i nostri rifiuti potrebbero poco a poco sommergerci, con ritmo sempre più incalzante, e che in essi potrebbe stare il boomerang più pericoloso della nostra civiltà, rappresentato bene dalla terribile quintessenza dei rifiuti nucleari e delle scorie di plutonio, problema sinora fondamentalmente insolubile.

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Nuovi allarmi scattano, nuove spinte all'ambientalismo si consolidano. Ma vi sono dimensioni più profonde. Chi osserva i rifiuti nelle nostre città, o ai margini delle nostre autostrade, o nei mezzi di trasporto appena abbandonati dai passeggeri, o all'uscita delle cosiddette grandi convivenze (prigioni, uffici, ospedali, fabbriche, ristoranti, parchi divertimento...), non può inorridire. Non solo e non tanto per l'immagine di disordine e di bruttura che vi emana. Sono rifiuti che mandano un doppio crudele messaggio: ci dicono che le cose vengono usate con economica brutalità, senza comprensione e sintonia, e che tutto ciò che non conserva l'abbagliante luccichìo del “nuovo di zecca” è semplicemente da buttare. Che terribile oracolo: l'”usa e getta” come canone fondamentale della nostra società! Una legge, forse non meno impietosa di quella spartana che imponeva di gettare i bambini ritenuti troppo deboli, e che viene applicata non solo alle cose, bensì anche agli uomini (ed ancor più alle donne). 

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Una legge che impedisce di conoscere a fondo, di amare, di scoprire, di possedere davvero, di inventare, di creare; una legge che trasforma ogni cosa dopo breve o brevissima vita in rifiuto e che fa concentrare, rimuovere e possibilmente annientare i rifiuti, magari persino catapultandoli nello spazio, quando definitivamente non sapremo più come difendercene.

 

Rimuovere quello che abbiamo e usiamo per fare spazio a nuovi consumi, nuovi bisogni, nuovi sprechi, nuova competizione, nuovo luccichìo e nuovo abbaglio. Cancellare le nostre tracce (peraltro sempre meno nostre), sfigurare e respingere da noi ciò che abbiamo usato o mangiato fino a poco prima, pretendere nuovi involucri sigillati e sterili, nuove vergini artificiali da violare distrattamente e poi buttare.

 

Diversa è stata l'esperienza e la lezione di Emmaus e dell'Abbé Pierre. “Raccogliere ed onorare i rifiuti“, si potrebbe chiamarla: persone rifiutate raccolgono cose rifiutate, rifiuti generano accettazione e solidarietà. Ciò che potrebbe essere visto come un – pur rilevante e magari geniale – espediente economico, che del resto da sempre viene praticato nelle società più semplici e conviviali, contiene una profonda filosofia di vita, indica una vera e propria svolta di civiltà. Gli scarti diventano sorgenti di vita, non solo economica o sociale, e intorno a ciò che una società di superficie rimuove con gesto fastidioso e insofferente, si aggrega un'altra società, più comunitaria, più attenta obbligata ad andare più in profondità, caratterizzata non da ciò che può spendere e sprecare, ma da quanto sa fare e quanto sa aiutarsi e farsi aiutare. Forse a molti farebbe bene l'esperienza di vivere almeno un giorno al mese assolutamente senza denaro, imparando a dipendere non dall'ubiqua carta di credito che dà il diritto di pretendere senza chiedere e di ricevere pagando, bensì dal credito che deriva dalla propria capacità di farsi amici, di domandare nel modo giusto, di saper sviluppare ed offrire proprie risorse non precostituite dal denaro, e dall'abilità di riutilizzare o ricreare o raccogliere e valorizzare ciò che altri buttano via.

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Raccogliere ed onorare i rifiuti è una rivoluzione: li trasforma in non-rifiuti, cioè “bene-accetti”, da ciò che non ha valore in qualcosa di prezioso, rende ricercato ed apprezzato ciò che per definizione sarebbe da buttare. Non sarà così eroico come “deporre i potenti dai troni”, ma c'entra molto con l'“innalzare gli umili”. Chi lo fa, contribuisce – oltretutto – molto di più alla salute del nostro povero pianeta e dei viventi che lo popolano, di quanto non capiti a molti dottori della legge ambientalista.

 

Dobbiamo essere grati all'Abbé Pierre, che ha dato un'anima a un'attività ritenuta marginale e disprezzata, e che ci ricorda che da ciò che i presunti normali scartano, può ripartire una risurrezione sociale, comunitaria, economica, morale e di inventiva pratica. E che ha saputo non solo pensare o proporre tutto questo, ma si è messo insieme a coloro che lo fanno e a loro modo così curano se stessi, tutti noi e – non poco – la natura che ci “sustenta et governa”, come direbbe Francesco d'Assisi.

 

Lode sia dunque all'Abbé Pierre, per aver saputo far diventare molto persone ”amici degli scarti”: ne abbiamo tanto bisogno. Ed avremo meno “scarti”.

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Intervento a La terre aux humains, Lyon, 27 Novembre, 1992, in occasione dei festeggiamenti per l'80°anniversario dell'Abbè Pierre, pubblicato nella rubrica di Senzaconfini, dicembre 1992

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© 2004-2020 Fondazione Alexander Langer Stiftung

2016

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Nel ghetto di San Ferdinando le biciclette sono ovunque. Sono il principale mezzo di trasporto per i braccianti. Chi ne ha una, può recarsi autonomamente nei campi, evitando così di pagare 3 euro al giorno al caporale. Per questo una delle figure-chiave della tendopoli è Issa, il gambiano riparatore di biciclette. La sua tenda-officina è proprio all’ingresso del campo, circondato da un mare di copertoni usati. Issa non va più in campagna da anni ormai, si dedica solo alle biciclette. Nei mesi della raccolta degli agrumi, da novembre ad aprile, arriva a ripararne anche 50 al giorno. Lavoro dalle 8 di mattina alle 2 di notte. Per ogni bicicletta riparata prende un euro. Basta il flusso costante del suo lavoro a testimoniare quanto sia vasto e radicato, nel territorio della Piana di Gioia Tauro, il mondo dei nuovi braccianti.

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La tendopoli è stata costruita sei anni fa. Nel gennaio del 2010, i braccianti africani di Rosarno si rivoltarono contro le durissime condizioni di vita e di lavoro a cui erano sottoposti. A far scattare la scintilla, come spesso capita, fu un fatto brutale: dei ragazzi del paese avevano sparato con un fucile ad aria compressa contro tre immigrati di ritorno dai campi.

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Dopo la rivolta, vennero sistemati in due nuovi accampamenti. Uno è fatto di container che si infuocano d’estate e si ghiacciano d’inverno, ed è situato in una piana desolata a pochi chilometri dalle ultime case di Rosarno. L’altro è la vasta tendopoli sorta nell’agro di San Ferdinando, il comune limitrofo. I container e le tende del Ministero dell’interno (la scritta del ministero è in bella vista) sarebbero dovuti essere una soluzione provvisoria, ma dal 2010 sono ancora lì. Nel «campo container», come viene chiamato dagli stessi braccianti, vivono in 250. Nella tendopoli, invece, arrivano anche a essere 1200 quando la raccolta degli agrumi si fa intensa. Di questi tempi, però, quando il lavoro scarseggia, gli stanziali sono 500-600.

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I due campi «provvisori» sono presto divenuti dei ghetti. Le tende e i container sono gremiti di giovani braccianti neri (tutti uomini, ci sono solo pochissime donne e due bambini) e dei loro indumenti: magliette, camice, un maglione per l’inverno, le coperte della protezione civile. Qua e là sono sorti piccoli baretti e negozi di alimentari, i rifiuti (anche la plastica) vengono bruciati a pochi metri di distanza.

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Oltre la metà dei braccianti che vivono nella Piana di Gioia Tauro sono rifugiati e richiedenti asilo. Vengono da Ghana, Nigeria, Mali, Gambia, Burkina Faso… Quando va bene, guadagnano 25 euro al giorno, quasi la metà di quello che dovrebbero percepire secondo il contratto provinciale. In genere vengono pagati a cottimo: 1 euro per ogni cassetta di mandarini; 50 centesimi per ogni cassetta di arance. Nei mesi di raccolta le ore di lavoro si fanno estenuanti. Quasi sempre si lavora “da sole a sole”, cioè dall’alba al tramonto.

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In questi giorni di giugno battuti da un sole feroce, il lavoro scarseggia. Solo in pochi riescono a rimediare qualche giornata per la potatura dei campi. Così molti se ne vanno in altre regioni del Sud e del Nord, inseguendo altre raccolte agricole e costituendo un flusso seminomade regolato dal caporalato. Ma poi ci sono quelli che rimangono qui tutto l’anno. Quelli la cui esistenza si lega a filo doppio alla tendopoli, perché non riescono a trovare un lavoro altrove, o non hanno la forza di uscirne, o non hanno semplicemente più soldi. E allora le giornate si allungano, e le si passa a parlare del nulla, a bere, a ingannare il tempo nei baretti che sorgono tra le tende.

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In uno di questi, l’8 giugno scorso, un bracciante maliano di 27 anni, è rimasto ucciso da un colpo d’arma da fuoco sparato da un carabiniere. Si chiamava Sek Traoré. Secondo la versione ufficiale, aveva bevuto molto ed era andato fuori di testa: quando i carabinieri, chiamati da altri braccianti, sono intervenuti, ha tirato fuori un coltello e ne ha ferito uno che per difendersi ha sparato. Ma tra le tende, si rincorrono altre versioni: «Sek non era ubriaco e non era pazzo, era solo uno duro…», «I carabinieri erano in sette contro uno…», «Sono rimasti chiusi nella tenda, soli con lui, e alla fine abbiamo sentito uno sparo…», «Il coltello era solo un coltello da cucina…»

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La polizia ha fatto dei rilievi, sul corpo del bracciante ucciso è stata condotta l’autopsia, e il prefetto ha annunciato che la salma verrà presto riconsegnata ai famigliari in Mali. Intanto, dopo l’uccisione c’è stato un corteo pacifico di braccianti tra le strade di San Ferdinando.

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Tre giorni dopo sono entrato nella baracca in cui Sek è rimasto ucciso. Non c’erano sigilli, quattro neri bevevano in silenzio, mentre su un televisore attaccato a un gruppo elettrogeno andava un video di Bob Marley. Non c’era la minima traccia dell’accaduto, a parte le voci che si inseguivano sotto la musica, e una tensione palpabile.

In questo misto di alienazione ed esasperazione, che costituisce il rovesciamento perfetto dei paesi della Piana, il ghetto temporaneo è divenuto un’entità stabile. Benché in Calabria sia stata approvata da pochi mesi un legge regionale sul lavoro nero, la tendopoli è ancora lì, esattamente come i ghetti sorti in Puglia, in Sicilia, in Campania e altrove.

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Quanto a Issa, tra un po’ lascerà la sua tenda-officina. Anche le sue riparazioni seguono le migrazioni interne del nuovo bracciantato. La settimana prossima andrà a Saluzzo, in provincia di Cuneo, dove inizia la raccolta della frutta. Un nuovo ghetto, pieno di biciclette, si ripopolerà esattamente come il ghetto in provincia di Reggio Calabria. E Issa sarà lì, con un’altra tenda-officina.

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© Pagina99 2016

© Minima&Moralia, 20 Febbraio, 2017 

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