26.11
DON LORENZO MILANI CI DISSE: DOVETE ABBANDONARE L'UNIVERSITÀ
IL PALLONE È TONDO
Alexander Langer
Alessandro Leogrande
1 Giugno, 1987
Quando ero studente all'Università di Firenze, scoppiò in quella città la polemica tra don Lorenzo Milani (esiliato a Barbiana, dall'arcivescovo Florit) ed i cappellani militari, capeggiati da un profugo istriano che si diceva essere vicino al MSI. I preti con le stellette avevano definito "viltà" l'obiezione di coscienza, allora punita senz'altro con il carcere, ed avevano approfittato se ricordo bene dell'anniversario del Concordato lateranense tra Fascismo e Vaticano per riconfermare la loro vocazione statalista, patriottica e di appoggio alle gerarchie militari. Don Lorenzo Milani aveva risposto a loro su "Rinascita", guadagnandosi insieme al direttore responsabile della rivista comunista un processo. Personalmente ero fortemente tentato dall'idea dell'obiezione di coscienza, ed al tempo stesso spaventato dal rischio carcerario che essa avrebbe comportato: per intanto avevo risolto il problema con il rinvio per motivi di studio. Ovviamente il "caso don Milani" e la sua presa di posizione sull'obbedienza che non era più una virtù mi colpivano profondamente ed esprimevano una posizione morale ed esistenziale in cui anch'io mi riconoscevo. Volevo sapere di più su don Lorenzo Milani, e venni informato di un suo libro uscito qualche anno prima e tolto dalla circolazione per disposizione dell'autorità ecclesiastica (sempre il medesimo Florit, succeduto al tollerante e lungimirante cardinale Dalla Costa, che era stato molto venerato da Giorgio La Pira). Mi feci dire il modo di procurarmi quel "samizdat": bisognava andare alla Libreria Editrice Fiorentina, in via Ricasoli, individuare un certo libraio e dirgli con sguardo complice: "sono uno dei ragazzi di don Lorenzo e dovrei prendermi il suo libro"; cosi feci, dopo di che ricevetti regolarmente una copia di Esperienze pastorali, tolta dall'armadietto dei veleni. Era per me un libro di difficile lettura, perché fortemente ancorato - anche nel linguaggio - alla realtà toscana, dove per esempio gli operai godevano di un prestigio sociale infinitamente superiore a quello dei contadini: tutto il contrario del Sudtirolo, e quindi per me quasi incomprensibile, come molte delle parole usate nel libro ("i pigionali", per esempio). Ma avevo capito una cosa determinante: che don Lorenzo Milani aveva deciso di voler parlare "ai poveri" e che per poterlo fare doveva prima "dare loro la parola": cosi aveva deciso di fare scuola, come presupposto essenziale di evangelizzazione. Caduto in odore di filo-comunismo, era stato tolto dalla circolazione, come il suo libro: mandarlo a Barbiana, significava renderlo muto ed isolato. Con un amico andai a trovarlo, dopo lo scoppio della polemica sull'obiezione di coscienza. Ci ricevette nella sua canonica, rubando un po' di tempo ai ragazzi ed alla scuola. Due tra le cose da lui dette mi sono rimaste particolarmente impresse. "Dovete abbandonare l'Università. Voi non fate altro che aumentare la distanza che c'è tra noi e la grande massa della gente non istruita. Fate piuttosto qualcosa per colmare quella distanza. Portate gli altri al livello in cui voi vi trovate oggi, e poi tutti insieme si farà un passo avanti, e poi un altro ancora, e cosi via. Ma se voi continuate a correre, gli altri non vi raggiungeranno mai. So bene che potrete trovare altri anche preti! che vi diranno il contrario e che vi troveranno mille buone ragioni per continuare i vostri studi e per diventare dei bravi medici o giudici o scienziati al servizio del popolo. Ma in realtà sarete al servizio solo del vostro privilegio per curare le nostre malattie e per decidere le cause nei tribunali ci bastano i mercenari pagati, non c'è bisogno di voi". (Non lasciammo l'Università. Ma demmo inizio ad un doposcuola a Vingone, presso Scandicci, basato sul volontariato di parecchi universitari, e frequentato prevalentemente da figli di immigrati meridionali).
"Io so come andrà al giudizio universale. II Signore Iddio chiamerà, insieme a me, davanti a sé il rettore del collegio... dei gesuiti a Milano. Dirà al rettore: "vedi, tu sei stato sempre con i ricchi. Hai fatto le loro stesse letture, hai condiviso la loro compagnia, sei stato loro commensale, hai educato i loro figli non puoi non essere diventato come loro. Hai sbagliato tutto, credendo magari di fare bene. Hai chiuso gli occhi davanti a coloro che rappresentavano me, e ti sei immedesimato nei loro oppressori. Guarda invece don Lorenzo che e qui accanto a te: lui ha scelto unilateralmente. Lui ha capito che non si possono amare concretamente più di 3-400 persone, ed ha scelto i poveri, i suoi campagnoli. Si e messo dalla loro parte, ha condiviso il loro mondo. Questo io vi avevo comandato, e tu non hai voluto ascoltare". Ma siccome il Signore è buono, alla fine gli darà un calcio nel sedere e lo farà entrare nel paradiso, mentre io entrerò con tutti gli onori. Capite? Se voi state con i ricchi, non potete non diventare come loro, se non lo siete già".
Ad un certo punto don Milani aveva proibito l'accesso a Barbiana a tutti quelli che avessero un titolo di studio superiore alla terza media, a meno che non fossero chiamati esplicitamente da lui e per una funzione precisa (a me capitò solo una o due volte). Tra le rare eccezioni c'era un'anziana ebrea boema, laureata in matematica, sopravvissuta al periodo nazista grazie all'aiuto di amici toscani che l'avevano tenuta nascosta in montagna. Marianne Andre arrivava a Barbiana a piedi, con il suo zaino, e stava ad ascoltare in grande modestia, parlando solo quando veniva invitata ad esprimersi. Diventammo amici e scoprii che aveva conosciuto mio padre. Dopo la morte di don Milani decisi di tradurre Lettera a una professoressa in tedesco e di cercare un editore (che ho trovato in Wagenbach), associando a questa impresa in particolare per la revisione del testo tedesco anche Marianne Andre, che ne era molto felice. La ragione del suo privilegio a Barbiana aveva una spiegazione semplice: era una perseguitata, che già aveva perso tutti gli altri suoi privilegi legati alla sua istruzione e condizione sociale.
Due cose mi avevano sempre incuriosito e non convinto in don Milani, ma non ho mai trovato il coraggio e l'occasione di chiedergliene ragione. Avevo tentato di chiederlo, dopo la sua morte, a sua madre (che era sopravvissuta a lui, e che non si e mai fatta battezzare), ma mi ero poi arrestato sulla soglia di queste due domande, che quindi rimangono senza risposta.
Avrei voluto capire quale eredità don Milani aveva ricevuto e conservato dall'ebraismo, che lui aveva abbandonato per convertirsi ad un rigoroso cattolicesimo. Ed avrei voluto domandargli la ragione della sua (eccessiva, secondo me) fiducia nelle grandi aggregazioni (la chiesa, la DC, i comunisti, il sindacato...), e della sua diffidenza e forse disprezzo per le minoranze (i "filo-cinesi", il Psiup di allora, gli "estremisti", le minoranze laico-radicali...). Avevo capito che lui credeva molto nelle grandi culture popolari e nella necessita che le idee forti si facessero strada in modo non elitario tra le grandi masse. Ma ho sempre avuto il sospetto che questa impostazione facesse in qualche modo violenza alla sua stessa storia, tutta quanta: dalla sua origine, al suo cammino nella chiesa fiorentina, fino all'esilio di Barbiana ed a quell'ultima sua disperata attesa di un cenno di riconoscimento e di apprezzamento da parte del suo vescovo e persecutore, il cardinale Florit.
Forse la prima domanda riceve implicitamente risposta dalla seconda, e dalla legge formale della chiesa, vissuta con la tenacia del "popolo della legge" e con la caparbietà di un profeta che vuole indurre le corti ed i sommi sacerdoti a cambiare strada.
Da "Azione nonviolenta", giugno 1987
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2015
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Il calcio che analizziamo in questo libro è quello che negli ultimi dieci, quindici anni si è eretto a sistema, palesando strapotere delle grandi squadre, onnipotenza dei diritti televisivi, doping, evoluzione del gioco tattico a scapito della briosità, violenza razzismo antisemitismo sugli spalti. Oggigiorno il calcio è un sistema chiuso, con le sue regole, i suoi diktat, i suoi divieti, le sue menzogne, la sua ideologia. È un sistema le cui parti si tengono insieme per osmosi, per reciproca necessità, per alleanze improbabili. È un sistema che ha fatto dei mediatori che stabiliscono i rapporti tra i suoi sottoinsiemi i signorotti che promulgano le regole del gioco ed estromettono chi non vi sottostà. Questo sistema dorato ma dai piedi d'argilla, fondato su una bolla economica, mediatica, politica, morale… è il regime del pallone, una prigione in cui sono rinchiusi i suoi principali attori: i giocatori, i presidenti, i giornalisti, i tifosi. Ma poiché il calcio (come realtà e come eterna metafora) si estende a tutta la società, impregnando il suo immaginario, scandendo i suoi tempi, in un rovesciamento in cui il gioco (preso maledettamente sul serio) spesso si sostituisce al Tutto, nella prigione ci siamo finiti tutti. Il calcio è uno sport totale, che estende i suoi precetti al di fuori del proprio perimetro.
È innegabile che la discesa in campo di Berlusconi (nel calcio prima che in politica) abbia cambiato le regole di cui stiamo parlando. È innegabile che il governo del calcio italiano si fondi sul duopolio Juventus-Milan, rispettive espressioni calcistiche del vecchio e del nuovo potere economico-politico, e che le nuove basi (eversive rispetto alle vecchie) siano state gettate dal Cavaliere, e da chi ha voluto imitarlo. Ma anche qui, come in politica, è più corretto parlare di berlusconismo, non limitandosi alla sola figura del premier rossonero: è più interessante scorgere il modo in cui il costume berlusconiano è stato omaggiato, osannato, fatto proprio nelle cento province italiche, il modo in cui è diventato cultura. È da questo humus culturale che sono emerse le nuove regole del calcio, quelle che si sono presto estese, al di là dell'ambito sportivo, nell'economia e nella politica.
Il regno del pallone appare immune dagli attacchi esterni. Questi sembrano scivolargli addosso senza intaccarlo. È una sfera perfetta, tonda, sgusciante. Eppure i segni della crisi sono nascosti a fatica.
Questo libro è un viaggio composito ed eterogeneo nel calcio italiano agli inizi del ventunesimo secolo. È il frutto del lavoro di molti autori; raccoglie più voci, più punti di vista, diverse analisi e diversi registri, ma traduce un comune sentire, un comune proposito: quello di vederci chiaro nell'involuzione che avanza, separando il poco di buono ancora presente nel mondo del pallone dal marcio dilagante.
Quanto conta oggi, nel mondo, il calcio italiano? C'è ancora chi pensa che la nostra serie A sia il campionato più bello del mondo, che l'epicentro dell'impero del pallone, lo sport più amato dagli esseri umani, sia nel Belpaese. Ma ciò non è vero o, almeno, non lo è più. Il nostro calcio è profondamente malato e ripiegato su se stesso. E non bastano i (pochi) successi internazionali delle compagini più forti a nascondere il fetore della malattia. Nonostante i conti truccati e le follie del mercato, i nostri club sono stati sopravanzati da quelli spagnoli e inglesi. La nostra nazionale non vince più in campo internazionale, i ricordi dei Mondiali dell'82 sono ormai un ricordo sbiadito. Da noi non crescono più talenti capaci di imporsi sulla platea internazionale. L'ultimo è stato Roberto Baggio: in assenza di altro, gli attuali "campionissimi" issati a modelli (Vieri, Totti, Del Piero, Cassano, Inzaghi…) sono incredibilmente gonfiati, messi sullo stesso piano dei veri fuoriclasse, dei Ronaldo, degli Zidane e degli Adriano che pur sempre hanno giocato e continuano a giocare nel nostro campionato. Ma spesso il velo si squarcia, e il trucco si rivela. I nostri "campionissimi" farebbero ridere se le loro vacuità, bullaggini e insipienze non fossero strapagate milioni di euro. E quindi c'è poco da ridere, c'è solo da indignarsi. La crisi è molto più profonda. Basta leggere i pezzi qui raccolti nella sezione "Ritratti" per accorgersi di come la figura stessa del calciatore sia andata degenerando nel corso dei decenni. Vettori di pulsioni, architrave del Palazzo, solo pochissimi tra loro si sono rifiutati di essere ridotti alla funzione di manovalanza passiva. Oggi è difficile trovare calciatori che si oppongono a un sistema che li omaggia tanto quanto consuma i loro corpi e le loro menti. (E sia detto per inciso: gli ingaggi dei calciatori, e le percentuali dovute ai procuratori, sono inconcepibili al di là del loro valore.)
D'altra parte, è proprio nel suo rivolgersi alle giovani leve, all'infanzia che scalpita sui campi di mezzo mondo, che il calcio appare come il regno della Grande Corruzione: uno sport che divora, al pari dei mercanti di schiavi, la vita e le speranze di ragazzini del Sud del mondo tanto quanto la vita e le speranze dei figli degli ultimi marginali della nostre società occidentali. C'era un tempo chi pensava che lo sport (e in particolar modo il calcio) potesse essere un terreno pedagogico. Oggi questo è possibile solo in contesti molto precisi e per allenatori-educatori (come Zdenek Zeman e Delio Rossi qui incontrati da Goffredo Fofi e Marco Martinelli) molto esigenti con se stessi e molto critici del regime del pallone. Per il resto, il calcio è oggi una delle più potenti macchine antipedagogiche, in cui si privilegia l'educazione alla cortigianeria, alla bravata, alla sopraffazione (come racconta, in un altro intervento, Sandro Veronesi).
Le curve da stadio sono spesso il buco nero della nostra società. Luogo di violenza, razzismo, antisemitismo, rituali ossessionanti, neofascismo, neonazismo, svastiche, croci runiche, lodi ad Arkan, a Stalin, elogio delle peggiori mattanze della Storia... E non si tirano fuori certo quelli ultrà che si definiscono "di sinistra" o "apolitici", perché attaccati sopra ogni cosa ai colori e ai valori (proprio così, loro parlano di valori) della propria squadra, da difendere all'occorrenza con coltelli e spranghe contro alienati di pari grado. Chi ragiona in questo modo, anche se politicamente non si definisce fascista, lo è comunque antropologicamente, culturalmente, esistenzialmente.
Il problema, come ha più volte scritto Corrado Sannucci, è che le curve non sono più aree di esclusione e di emarginazione; al contrario i loro ras sono corteggiati e vezzeggiati dalle stesse società calcistiche, hanno un ruolo ben preciso nel calcio odierno e lo giocano sapientemente. Spesso gestiscono il merchandising, altre volte controllano la vendita di parte dei biglietti, quasi sempre pretendono e ottengono impunità, e - così facendo - hanno trasformato l'intero stadio (cui peraltro si sono estesi i comportamenti della curva) in una prigione di degrado. A Roma, questo rovesciamento ha raggiunto livelli parossistici, e inaccettabili. Ma non è certo migliore la situazione in altre città, grandi o piccole, del Nord e del Sud. E non importa che le squadre che gli ultrà incitano siano in seria A, in serie B o nelle serie inferiori: la musica non cambia. Non c'è più niente di popolare oggi nelle curve, niente che possa giustificare abusi e soprusi. Gli ultrà sono semplicemente dall'altra parte, sono i bravi del regime del pallone.
A chi incita alla repressione, alla costruzione di recinzioni ancora più alte, all'aumento dei controlli, alla militarizzazione degli stadi, va ricordato che non si può certo fare di tutta l'erba un fascio, che i ragazzi (spesso giovanissimi, spesso adolescenti) che subiscono il fascino della curva e dei suoi ras vanno decifrati, compresi. Ma capirli vuol dire anche contribuire a separarli da quei non-valori odiosi e imperanti. Opera non certo facile quando tutto è calcio.
La Tv. C'è chi dice che è il principale nemico del calcio giocato, ciò che ha ucciso il rapporto tra i tifosi e lo stadio, e quindi il rapporto tra chi lo sport lo pratica e chi lo guarda. Eppure, anche i ricordi di Italia-Germania 4-3 o di Italia-Brasile 3-2 sono, per la stragrande maggioranza degli italiani, ricordi televisivi. Che cosa distingue allora quei ricordi dall'attuale Circo mediatico, dall'invadenza del parlato e del rivisto in continuazione alla moviola e da più angolazioni, dallo strapotere di Sky e dello "Sky way of football"? Forse non è la televisione in quanto tale il problema, ma il modo in cui questa viene usata, orientata, subita. Si dovrebbe scandagliare allora lo stile televisivo dominante, l'overdose da competizione, il dominio delle opinioni e del chiacchiericcio sui fatti sportivi, la decomposizione di questi in miriade di immagini (o "emozioni" televisive) che del fatto non restituiscono mai l'unità, ma un suo surrogato: una montagna di surrogati all'interno della quale i tifosi-telespettatori sono rinchiusi. Ma poiché oggi i diritti televisivi sulle partite di calcio sono al primo posto nelle agende dei dirigenti di tutte le emittenti, che siano pubbliche o private, che siano a pagamento o in chiaro, e poiché, come si sa, la televisione conta tantissimo, in quella prigione - ancora una volta - ci siamo finiti tutti.
È possibile individuare una via di fuga? Una crepa attraverso la quale evadere, uscire all'aria aperta? Gli autori di questo libro provano a capirlo e, se non proprio a organizzare un'evasione, provano a tracciare, sommessamente, delle linee di resistenza. Incominciando da un modo di scrivere e di narrare il calcio che provi a rifiutare le menzogne, le edulcorazioni, gli abbellimenti dominanti. È esistita, e continua a esistere, una magia del calcio. Ma questa si accende, di rado, sui prati verdi; sulla carta bisogna prendere atto delle infezioni che l'aggrediscono, pur non dimenticando la bellezza, l'allegria e le passioni autentiche che lo sport dei piedi ha saputo offrire.
Ci è sembrato giusto concludere questo lavoro collettivo con le riflessioni di Carmelo Bene raccolte da Giuliano Capecelatro durante i Mondiali di Usa '94. Racchiudono una proposta radicale con la quale tutti dobbiamo avere il coraggio di confrontarci: ricominciare da zero, azzerando il calcio, azzerando se stessi, azzerando l'Italia, i suoi regimi e le loro opposizioni… Questo libro è dedicato alla sua memoria e a quella di un altro autore scomparso non molto tempo fa, di cui pubblichiamo, in questa raccolta, un bellissimo racconto: Sandro Onofri. Il suo modo di narrare il calcio, le trasformazioni di Roma, il rapporto tra generazioni ci manca, tantissimo.
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da "Il pallone è tondo" a cura di Alessandro Leogrande, con contributi di Marco Ansaldo, Ornella Bellocci, Maurizio Braucci, Pasquale Coccia, Andrea Di Caro, Matteo Di Gesù, Giancarlo Dotto, Goffredo Fofi, Stefano Laffi, Marco Martinelli, Gianni Mura, Sandro Onori, Luca Rastello, Corrado Sannucci, Roberta Saviano, Paolo Sollier, Mauro Valeri, Sandro Veronesi. L’Ancora di Mediterraneo, 2005
Ascolta anche da RAI RADIO 3
IL MONDO DI LEOGRANDE / IL PALLONE È TONDO
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