top of page
SMD_2.jpg

22.11

ECOLOGIA E MOVIMENTO OPERAIO - UN CONFLITTO INEVITABILE?

Alexander Langer

 

L’AMBIENTALISMO SOCIALE DI ALEXANDER LANGER

Alessandro Leogrande

1 Ottobre, 1983. Verde UIL

 

È un vero e proprio luogo comune truffaldino, quello che vorrebbe in contrasto immanente il movimento ecologico con quello operaio, o più in generale l'ecologia con il lavoro. 

Ma tant'è che passa per acquisita la contraddizione tra risanamento ambientale e posti di lavoro, e vengono citati gli operai della Farmoplant di Massa, dell'ACNA di Cengio o della Stoppani di Genova per dimostrarla: tutti casi dove gli operai ed i sindacati erano mobilitati a difendere la continuità produttiva di impianti chimici gravemente inquinanti, di cui la popolazione ed "i verdi" chiedevano la chiusura. Stessa storia a Montalto di Castro: operai e sindacati in piazza per far portare a termine la "promessa" centrale nucleare, ecologisti al contrario mobilitati a bloccare l'industria nucleare. E stessa storia anche con quegli agricoltori che vedono nel referendum contro i pesticidi un attentato al loro lavoro ed al loro reddito.
 

Se si accettasse questa logica, avrebbero avuto ragione quelle migliaia e migliaia di giovani ufficiali della prima guerra mondiale che erano assai delusi dalla fine della guerra perché la pace non riservava loro un ruolo altrettanto prestigioso ed anzi li minacciava di disoccupazione: ma si possono davvero fare (o prolungare) le guerre per risparmiare il rischio della disoccupazione ai militari ed agli addetti dell'industria bellica?
 

O non è piuttosto questa la massima alienazione che il movimento operaio dovrebbe combattere? Come possono gli stessi operai chiedere di continuare una produzione o un'attività nociva a loro stessi e agli abitanti della loro città, ai loro figli, alla gente in generale - e il tutto, ovviamente, perché qualche impresa e qualche imprenditore ne tragga profitto? Certo, il ricatto della disoccupazione… si sa, ma qualsiasi lotta del movimento operaio ha sempre dovuto fare i conti col ricatto del licenziamento, della fuga dei capitali, delle chiusure di impianti, della razionalizzazione e conseguente riduzione di manodopera, della ristrutturazione anti-operaia. Perché una lotta per aumenti salariali o contro il cottimo dovrebbe essere congeniale al movimento operaio più di una lotta per la salute in fabbrica e per la salubrità delle lavorazioni con riguardo anche a chi sta fuori dalla fabbrica? 
 

In ogni caso intorno al conflitto strutturale tra operai e padronato si scontrano esigenze contrapposte: l'impresa tenderà a minimizzare i suoi costi e a massimizzare i suoi profitti sia a spese dei lavoratori che a spese dell'ambiente, degli acquirenti e consumatori dei suoi prodotti o servizi e della collettività in generale. Cercherà di risparmiare e di guadagnare sulle tasse, sul costo del lavoro, sui costi dei trasporti, sui costi ambientali... scaricandoli, per l'appunto - nei casi in cui e finché potrà farlo - sugli operai, sulla collettività e sull'ambiente. Gli operai, a loro volta, tenderanno a minimizzare la fatica, il tempo, l'alienazione impiegati per l'impresa e a massimizzare il salario ed i loro spazi di partecipazione e di libertà. Ma perché dovrebbero allearsi col padrone per sostenere e difendere produzioni nocive a loro stessi e al prossimo? 
 

Solo la logica distorta del produttivismo e la resa - questa sì, davvero, alienante! - all'ottica padronale e aziendale può far scegliere gli operai ed i sindacati di stare dalla parte del produttivismo padronale, cioè dell'indifferenza verso il cosa e come si produce, purché si produca e si venda il prodotto! 

 

Ma esiste anche un'altra tradizione nel movimento operaio: quella che annovera la rivendicazione di fabbricare aratri invece che cannoni e di costruire case popolari invece che alloggi di lusso; quella che affermava che la nocività non si contratta e la salute non si vende; quella che si opponeva tout court alla logica del produttivismo ("di cottimo si muore", "no alla flessibilità ed alla piena utilizzazione degli impianti"...). La tradizione di quei filoni della lotta dei lavoratori che pretendevano - giustamente - di pronunciarsi sulla qualità sociale del lavoro, sui suoi fini, sui limiti della vendibilità della forza-lavoro, oltre che sul suo prezzo.

 

Utilizzando un'espressione oggi corrente nel dibattito sull'ecologia, si potrebbe dire che anche nel movimento operaio si ritrova il filone in cui prevale l'attenzione alla "quantità" e quello, invece, più attento alla "qualità": e se indubbiamente il sindacalismo si è avvicinato sempre di più alla mera contrattazione della quantità (di lavoro, di retribuzione, di tempo, di servizi e prestazioni sociali, ecc.), non va sottaciuta e rimossa tutta quell'altra faccia del movimento operaio e dello stesso sindacalismo che è intervenuta e continua ad intervenire sulla qualità (del lavoro e delle condizioni di lavoro, del prodotto, del tempo lavorativo o libero dal lavoro, della stessa retribuzione e delle prestazioni sociali connesse, ecc.). E se finora la "qualità" cui il movimento operaio prestava attenzione - quando ne prestava - era essenzialmente riferita alla stessa classe operaia (no al lavoro notturno, ai ritmi troppo gravosi, al lavoro dei fanciulli, gli infortuni sul lavoro, i trasporti e la mensa...) e riguardava quindi in un certo senso la "qualità di classe" o, nelle migliori ipotesi, la "qualità sociale" del lavoro, oggi si impone sempre di più la necessità di badare anche e forse persino prioritariamente alla "qualità ecologica" del lavoro e delle sue condizioni. Lo esige non solo l'emergenza ambientale, in generale, ma lo stesso degrado alienante del lavoro, da un lato, e le potenzialità di riscatto e di risanamento, dall'altro. (Cosa che, del resto, dovrebbe valere altrettanto anche per il versante imprenditoriale, e comincia - infatti - ad affermarsi qua e là.)
 

Il movimento ecologista contiene, dunque, un grande invito al movimento operaio: quello a rompere la subalternità al produttivismo e ad occuparsi, finalmente, anche della qualità (ecologica ed umana, oltre che sociale e di classe) del lavoro e delle sue condizioni. E chiede una preziosa ed indispensabile collaborazione: chi meglio dei lavoratori addetti (e dei loro sindacati) potrebbe informare e mettere in guardia i cittadini e gli ambientalisti, quando una produzione è pericolosa per la salute di chi ci lavora, di chi sta intorno e di chi consuma il prodotto? Non c'è bisogno di pensare a Seveso (dove, ricordiamocelo, sindacati e operai non avevano mai allertato la popolazione del pericolo che la gente del posto correva!) o alla centrale nucleare di Caorso, basta riferirsi - assai più modestamente - ai contenuti dello scatolame alimentare, dei flaconcini di shampoo, alle fibre sintetiche, ai detersivi, ecc. Quel che la gente e gli ecologisti oggi chiedono ai lavoratori di tutti i settori (perché non ce n'è alcuno che sia immune alla qualità ecologica!) e al movimento operaio e sindacale organizzato è di essere anche occhi ed orecchi, nasi e gole per conto del "popolo inquinato" (fatto in grandissima parte proprio da famiglie di lavoratori!), e di aiutarlo a difendersi contro gli inquinatori ed i ladri di salute. Di lottare, quindi, per non dovere più continuare produzioni nocive ed inquinanti, pericolose e a rischio. Quanto spazio e quale gamma per un movimento operaio e sindacale che voglia rompere l'alienazione e contare davvero, cominciando a interloquire e contrattare, lottare e autogestire in tema di risanamento e qualità ambientale del lavoro! 
 

E quale sfida per il movimento ecologista, che dovrà fare della solidarietà attiva e fantasiosa con i lavoratori disposti a "finire la guerra" e a "riconvertire l'industria bellica a scopi pacifici" un suo obiettivo di primaria importanza, decisivo per uscire dal tunnel della chimica pesante, delle produzioni energetiche ad alto rischio ed alto inquinamento, delle mega-opere-pubbliche, della stradomania, della dittatura dell'automobile e così via! L'idea di un globale disegno di risanamento del lavoro ed anche di una grande "cassa integrazione verde" perché la collettività si assuma, giustamente, gli oneri di tale riconversione e non li scarichi semplicemente sugli operai che - spesso loro malgrado! - lavorano negli impianti nocivi, si fa sempre più strada.
 

È tempo, dunque, che si infittiscano il dialogo e le iniziative esemplari tra ecologisti ed operai (anche sindacalisti), ma anche tra ecologisti, operai ed imprenditori, per esplorare concretamente, e non necessariamente solo in situazioni di conflitto, il terreno della comune lotta per la qualità ecologica, oltre che sociale ed umana, del lavoro. Vorrà dire prendere per le corna il toro dell'alienazione, e lavorare per il disinquinamento non solo dell'ambiente, ma anche della vita di milioni di persone, dentro e fuori le fabbriche, gli uffici, i servizi, le campagne.

© 2004-2020 Fondazione Alexander Langer Stiftung

Giugno, 2010

A differenza di un certo ambientalismo che bypassa le questioni sociali, Langer non ha mai sottaciuto che trovare una composizione tra ecologisti e operai è il problema principale per chi oggi si occupa di lavoro, non solo di ambiente

Per tutta la vita Alexander Langer non ha fatto altro che saltare muri, attraversare confini culturali, nazionali, etnici, religiosi. Fin da ragazzo si è impegnato a favore della convivenza interetnica nella sua terra, l’Alto Adige/Sudtirolo, si è speso per sgretolare i blocchi monolitici contrapposti tra italiani e tedeschi, evitare la rappresentazione del Sudtirolo per “gabbie”, e aprire a una nuova dimensione delle relazioni umane, sociali e politiche.

Ma Langer è stato anche molte altre cose: giornalista, insegnante, militante di base e poi dirigente in Lotta continua, parlamentare europeo. Negli anni ottanta è stato tra i maggiori animatori del movimento “verde”; negli anni novanta un costruttore di ponti tra “linee nemiche” in Bosnia e nei Balcani, fortemente orientato dalla ricerca di soluzioni concrete di pace, interetniche e dal basso, che mettessero insieme i “traditori” delle rispettive parti, sulla base di quelle elaborate molti anni prima nel suo Sudtirolo.

Viaggiatore instancabile, intellettuale plurilingue, Langer si è tolto la vita quindici anni fa, ma i molti testi che ha lasciato, e che negli ultimi anni sono stati raccolti in più libri, continuano a interrogarci. Il viaggiatore leggero (Sellerio) costituisce tuttora la raccolta più esaustiva di articoli e interventi. Ma per capire il suo singolare percorso all’interno del cristianesimo del dissenso, nella nuova sinistra, nella galassia ecologista, nel pacifismo, è utile leggere anche la biografia che gli ha dedicato Fabio Levi, In viaggio con Alex (Feltrinelli).

Tra i tanti temi sollevati da Alex Langer c’è anche quello del rapporto tra ecologia politica e sindacato, tra difesa dell’ambiente e difesa dei diritti dei lavoratori. Un rapporto che spesso (anche se non sempre) diventa molto complicato quando si tratta di difendere il posto di lavoro (in Italia, in Europa, come nel Sud del mondo) in fabbriche oltremodo inquinanti. Questo tema è stato ben sintetizzato da Guido Viale, nel corso di un convegno dedicato alla sua figura (Alex Langer tra ieri e domani) che si è tenuto a fine maggio ad Amelia, in provincia di Terni, con un intervento dal titolo: “La conversione ecologica nel rapporto con i lavoratori delle fabbriche in crisi”.

Langer è stato tra i primi a parlare di “conversione ecologica”. Di conversione (con un senso fortemente etico e strutturale) e non semplicemente di riconversione (termine meramente tecnico). Ha anticipato molti temi, tra cui quello della “decrescita condivisa e responsabile”, che poi sarebbero stati largamente usati agli inizi del ventunesimo secolo. Ma ogni qualvolta Langer ha parlato di “conversione ecologica”, non ha mai eluso il tema di una trasformazione della produzione industriale gestita dal basso (con il consenso cioè dei lavoratori). A differenza di un certo ambientalismo che bypassa completamente le questioni sociali, non ha mai sottaciuto che trovare una composizione tra ecologisti e operai è il problema delle società postindustriali. Il problema principale per chi oggi si occupa di lavoro, non solo di ambiente.

Probabilmente Langer aveva maturato questa concretezza negli anni settanta, quando a Francoforte per Lotta continua e altri gruppi della nuova sinistra tedesca si occupava di organizzare politicamente gli “operai multinazionali”, cioè i lavoratori immigrati dall’Italia, dalla Grecia, dalla Turchia, dalla Jugoslavia in Germania. Questa esperienza è stata recentemente ricordata da Daniel Cohn-Bendit. Ovviamente non fu solo la nuova sinistra a occuparsi di lavoratori immigrati in Germania, ma quello che ci interessa sottolineare, a parte la vicinanza con gli operai e con i loro problemi, è un altro aspetto. Ci interessa sottolineare il fatto che Langer abbia sempre preferito l’espressione “operai multinazionali” alla categoria di immigrati. E questa forse è una lezione da ricordare anche oggi, quando si parla o ci si impegna al fianco dei nuovi lavoratori della società italiana. Nelle fabbriche, nelle metropoli, nei piccoli centri, nelle campagne... Sono lavoratori multinazionali, non immigrati.

Ma torniamo al tema della conversione ecologica e al rapporto con gli operai e i sindacati, tema che Langer avvertiva come cruciale. In un testo molto bello dell’ottobre del 1983, intitolato Ecologia e movimento operaio, un conflitto inevitabile?, scriveva:

“È tempo, dunque, che si infittiscano il dialogo e le iniziative esemplari tra ecologisti e operai (anche sindacalisti), ma anche tra ecologisti, operai e imprenditori, per esplorare concretamente, e non necessariamente solo in situazioni di conflitto, il terreno della comune lotta per la qualità ecologica, oltre che sociale e umana, del lavoro. Vorrà dire prendere per le corna il toro dell’alienazione, e lavorare per il disinquinamento non solo dell’ambiente, ma anche della vita di milioni di persone, dentro e fuori le fabbriche, gli uffici, i servizi, le campagne”.

Langer non aggira la questione di fondo, non nega che spesso di fronte alla difesa del posto di lavoro in fabbriche che continuano a inquinare o che producono beni che sono il simbolo di una società inquinata (come le automobili) la soluzione non sia facile, e che in alcuni casi estremi risulta addirittura impossibile. Non nega che parlare di “limitazione delle scelte produttive” in tempi di crisi possa apparire una chimera. Non nega tutto ciò, eppure sottolinea che il tema della giustizia globale ha a che fare immediatamente con l’ecologia e i modi di produzione. E su questo basta citare il noto paradosso: se tutti i cinesi e gli indiani vivessero come gli americani e gli europei occidentali, cosa cui legittimamente ambiscono, e cosa che il Nord del mondo non può impedire autoritariamente, avremmo bisogno delle risorse di cinque pianeti come la Terra. E, allora, che fare?

Siamo così arrivati al fondo del nesso tra lavoro ed ecologia, un nesso che investe le scelte del movimento dei lavoratori, a Termini Imerese come a Shanghai. Che fare, allora? Nello stesso testo del 1983 Langer sviluppava anche un’altra riflessione che è opportuno rileggere per intero.

“Ma esiste anche un’altra tradizione nel movimento operaio”, scriveva ancora, “quella che annovera la rivendicazione di fabbricare aratri invece che cannoni e di costruire case popolari invece che alloggi di lusso; quella che affermava che la nocività non si contratta e la salute non si vende; quella che si opponeva tout court alla logica del produttivismo (‘di cottimo si muore’, ‘no alla flessibilità e alla piena utilizzazione degli impianti’...). La tradizione di quei filoni della lotta dei lavoratori che pretendevano – giustamente – di pronunciarsi sulla qualità sociale del lavoro, sui suoi fini, sui limiti della vendibilità della forza-lavoro, oltre che sul suo prezzo. Utilizzando un’espressione oggi corrente nel dibattito sull’ecologia, si potrebbe dire che anche nel movimento operaio si ritrova il filone in cui prevale l’attenzione alla ‘quantità’ e quello, invece, più attento alla ‘qualità’: e se indubbiamente il sindacalismo si è avvicinato sempre di più alla mera contrattazione della quantità (di lavoro, di retribuzione, di tempo, di servizi e prestazioni sociali eccetera), non va sottaciuta e rimossa tutta quell’altra faccia del movimento operaio e dello stesso sindacalismo che è intervenuta e continua a intervenire sulla qualità (del lavoro e delle condizioni di lavoro, del prodotto, del tempo lavorativo o libero dal lavoro, della stessa retribuzione e delle prestazioni sociali connesse, eccetera)”.

Oggi quindi si impone sempre di più la necessità di riconsiderare la qualità ecologica del lavoro e delle sue condizioni. “Lo esige non solo l’emergenza ambientale, in generale, ma lo stesso degrado alienante del lavoro, da un lato, e le potenzialità di riscatto e di risanamento, dall’altro (cosa che, del resto, dovrebbe valere altrettanto anche per il versante imprenditoriale, e comincia – infatti – ad affermarsi qua e là)”. A quindici anni dalla scomparsa del più eclettico e cosmopolita dei Verdi italiani, la questione è più aperta che mai.

Schermata 2020-11-22 alle 13.31.09.png
bottom of page