24.11
SINDACATO E LIMITI DELLA CRESCITA
Alexander Langer
HA SENSO NAZIONALIZZARE L'ILVA?
Alessandro Leogrande
1 Gennaio,1985
In tutto il mondo industrializzato ormai si conoscono e si usano i famosi adesivi "nucleare? no grazie!" che sono diventati uno degli emblemi del "movimento alternativo", e più in particolare del movimento "verde", intendendo per questo l'insieme dei gruppi ad iniziative ecologiste, pacifiste, non-violente, impegnate per una nuova qualità della vita ed anche della politica.
Forse è meno noto che, per esempio in Austria, la centrale sindacale dell'OGB (il sindacato unitario dei lavoratori) esercita una seria pressione sul governo federale perché attivi -- passando sopra ai risultati di un referendum nazionale del novembre 1978 -- la produzione di energia nucleare a Zwentendorf, e che, anche in Germania federale, il sindacato DGB non si limiti a sostenere in sede politica la scelta in favore dell'energia nucleare, ma distribuisca dei contro-adesivi al "nucleare? no grazie" con la scritta "età della pietra? no grazie!" Tale impegno attivo dei sindacati austriaci e tedesco-occidentali in favore dell'energia nucleare viene motivato con l'argomento che solo in tal modo l'industria nazionale rimarrebbe concorrenziale e competitiva sui mercati mondiali, tenendo il passo dei paesi più avanzati, e che -- in definitiva -- così si garantiscono posti di lavoro presenti (costruzioni delle centrali) e futuri (nelle industrie alimentate dall'energia nucleare).
L'esempio che ho voluto riportare racchiude in sè emblematicamente una seria contraddizione, che forse è destinata a diventare in breve tempo, il problema principale con cui i sindacati dei paesi industrializzati devono fare i conti. Impostare le proprie energie su ipotesi di crescita economica (del prodotto, della produttività, del volume degli scambi, del livello tecnologico, ecc.) ed impegnare le proprie forze in direzione di tale crescita, o prevedere, magari operando in tal senso, che la crescita, l'espansione economica quantitativa tendano ad arrestarsi e ridefinire, di conseguenza, l'intera strategia sindacale?
Stupisce -- ma non più di tanto -- che tale interrogativo sia praticamente assente dal dibattito teorico di cui libri e riviste, ed in particolare le pubblicazioni sindacali, danno conto. Sono poche le voci che affrontano, ed in genere solo marginalmente, qualche aspetto del problema di cui si tratta. Antonio Lettieri, per esempio,in una intervista rilasciata a "Quaderni di rassegna sindacale" (n.92/1981, p.119) riconosce che il movimento sindacale ha legato la sua capacità di rappresentanza e di cambiamento ad un'ipotesi di sviluppo quantitativo progressivo ed ininterrotto (espansione produttiva, crescita dei redditi, dell'occupazione; su questa base anche crescita di libertà e di democrazia), e si pone -- pur senza rispondervi -- la domanda quali alternative abbia il sindacato, se ciò non avvenisse. Giorgio Ruffolo, che in "mondoperaio" (aprile 1980) aveva affrontato la questione dei "limiti della crescita", individua nell'arresto della crescita quantitativa addirittura una formidabile occasione di socialismo, ma tralascia l'interrogativo relativo alle implicazioni per il sindacato. Solo recentemente è uscito in Italia (in "Problemi del socialismo", nel n. 24-25/1982) un saggio di Altvater, Hübner e Stanger che affronta più esplicitamente la questione delle strategie sindacali in epoca "post-keynesiana".
Vediamo di individuare i termini della questione e di dar conto delle prime risposte che oggi si ritrovano nel dibattito in corso.
1. Il problema dei limiti della crescita: la "catena di S. Antonio" si esaurisce
È noto che il capitalismo funziona come una sorta di "catena di S. Antonio": chi riceve una lettera, ne deve scrivere un'altra due, tre, quattro... sette, ed inviare denaro ad almeno un'altra persona, se vuole che -- dopo qualche tempo, e posto che la catena non si interrompa -- gli arrivino i soldi promessi dagli iniziatori della catena. In altre parole: per remunerare il "capitale" investito, bisogna che il "giro" si allarghi.
L'economia capitalista (anche quella a capitalismo di stato) ha funzionato sinora grazie al continuo allargarsi del giro, sia in estensione che in intensità, trasformando in merce ed in mercati settori sempre più vasti e sempre più intensamente sfruttati del mondo, dei beni disponibili, delle stesse attività umane e delle risorse complessive della natura e dell'umanità.
Da qualche tempo ci si comincia ad accorgere, che tale allargamento non può continuare senza limiti. Soprattutto il saccheggio delle risorse naturali (materie prime, energie, ambiente, aria, acque, suolo edificabile, territorio, boschi, ecc.) ed il problema del crescente peso della degradazione e dell'inquinamento del globo, hanno contributo a porre questo problema sul tappeto. A partire dal 1972 (il famoso rapporto del Massachusetts Institute of Technology) si parla dell'avvicinarsi di una "crescita zero"; della crisi petrolifera (1973) in poi tale eventualità è diventata assai più plausibile; importanti autori hanno posto il problema dei limiti fisici e dei limiti sociali della crescita, discutendo con posizioni controverse tra loro -- intorno a dati e prospettive, convergendo comunque su alcune constatazioni comuni che cerchiamo di riassumere per sommi capi. Lo "sviluppo", inteso come crescita quantitativa e qualitativa, è da valutarsi ovviamente in termini assai diversi in relazione alle diverse aree del mondo (sviluppate e no), ma che esista un "limite" e che ci si trovi di fronte a risorse complessivamente scarse ed esauribili è diventato un concetto acquisito.
"Se è vero che i benefici della crescita sono decrescenti e i costi crescenti, ci sarà un posto di intersezione a partire dal quale i secondi superano i primi e il beneficio si annulla; e difatti non c'è disputa sulla insostenibilità, a lungo andare, della crescita della popolazione e delle risorse, ma soltanto sul quando e sul come dell'arresto. Ma un arresto o un rallentamento brusco del tasso di crescita è destinato a provocare conseguenze economiche, sociali, politiche gravissime, dato che il meccanismo dell'economia capitalista è costruito in funzione della crescita. Un modello di sviluppo equilibrato è certamente alternativo rispetto all'attuale realtà del capitalismo.", scrive Giorgio Ruffolo. Le stesse "tesi" della "Lega ambiente" dell'ARCI (congresso di Urbino, 1983), con le quali certe acquisizioni entrano nel patrimonio più largamente accettato della sinistra italiana, così si esprimono: "L'indiscutibilità dei limiti delle risorse, ed in particolare della risorsa-spazio in sè , ci dà un punto di partenza certo... per una nuova costruzione di pensiero da porre a base dell'alternativa culturale e sociopolitica che ci proponiamo di configurare. Costruzione che, in contrapposizione al pensiero economico classico basato sulla crescita illimitata, sarà caratterizzata proprio dal fatto di portare sul terreno dell'economia la consapevolezza dei limiti delle risorse naturali... Si introduce così nella nostra prospettiva il concetto di arresto della crescita materiale come obiettivo, e la ricerca delle gratificazioni sostitutive che può offrire agli uomini del nostro tempo -- ed ai giovani in particolare -- una condizione economica caratterizzata dalla stabilità".
Le contraddizioni ed i limiti della crescita riguardano, dunque, in primo luogo le risorse naturali, nel loro complesso (energia compresa); e tra queste un posto di rilievo spetta sicuramente alla "questione demografica": anche la crescita della popolazione non potrà continuare a tassi illimitati; altrettanto vale per i consumi materiali.
I profondi squilibri indotti dai modelli di crescita e di espansione imposti dal capitalismo sono noti: nord/sud (nel mondo), sviluppo/sottosviluppo, sprechi/fame, automazione/disoccupazione, altissima tecnologia/incontrollabilità, ecc. e culminano nella progressiva corsa agli armamenti sempre più sofisticati e nella gravissima contraddizione tra la super-sazietà di una parte dell'umanità e la fame dell'altra: ognuna di queste contraddizioni, tra l'altro, contiene in sè un rapporto necessario tra causa ed effetto, di condizione reciproca, non diversamente dalla più nota contraddizione di classe tra capitale e lavoro, senza che tuttavia si identifichi e si esaurisca semplicemente in essa.
2. Crisi strutturale: le vacche grasse non tornano
Possiamo considerare appurato che la crisi economica che in questi ultimi anni si avverte in forma ormai prolungata sia una crisi strutturale, e non semplicemente congiunturale. Si può prevedere che nei paesi sviluppati non si ripeteranno i tassi di crescita che si sono registrati dalla seconda guerra mondiale in poi. Queste affermazioni qui non possono essere dimostrate, per cui occorre rinviare a testi più specifici. Ma si può, forse, accettare la tesi che in questa crisi, tra altri fattori, si rifletta in misura sempre maggiore esattamente l'avvicinarsi del limite, il manifestarsi di fenomeni di scarsità che mettono in forse tutta la dinamica dello sviluppo capitalistico sin qui realizzato. Per dirla in forma semplificata: tutto il sistema economico avverte che le vacche grasse se ne sono andate e non torneranno più; tentare di farle ritornare è opera di Sisifo, o è decisamente pericolosa (perchè può significare, per esempio, una ipotesi di guerra per rilanciare la accumulazione, la concorrenza e l'espansione).
Ci basta sapere che la crisi che stiamo vivendo di per sè comporta un notevole rallentamento ed in prospettiva forse l'arresto della crescita, o bisogna chiedersi se tale rallentamento e crescita vadano addirittura promossi ed accelerati? Bisogna dire che il ritorno ad una spirale, magari transitoria, di espansione e di crescita dei sistemi industriali avanzati non sia neppure auspicabile perchè comporta per tutta l'umanità un costo troppo alto da pagare (distruzione ed esaurimento di risorse non rinnovabili e non sostituibili)?
Sono ormai in molti a dirlo -- anche se poi potrà essere forse controversa la questione se l'Italia vada annoverata tra i paesi già "troppo" sviluppati --. Nuovi movimenti sociali di orientamento ecologista ed ispirati, tra l'altro, ad una critica agli squilibri mondiali, al consumismo, all'industrialismo, ecc. -- i "verdi" ed altri comparabili gruppi -- avanzano con la forza della contestazione radicale la convinzione che ormai, nei paesi a sviluppo avanzato, il cosiddetto "sviluppo" debba essere consapevolmente e responsabilmente "autolimitato" se non si vuole andare dritti dritti ad una catastrofe planetaria. Studiosi e scienziati -- non più solo il "Club di Roma", né più in quell'ottica soltanto -- sostengono questa linea. Il capitalismo maturo viene analizzato come un sistema "a somma zero", dove ogni beneficio ricavato da un individuo comporta equivalente perdita per un altro individuo, con la tendenza addirittura ad una condizione globale in cui i costi supereranno i benefici della crescita. E uno dei primi indicatori è proprio la disoccupazione di massa, in tendenza sempre più crescente e strutturale, negli stessi paesi sviluppati: la piena occupazione è destinata a non ritornare più, e se oggi nei paesi sviluppati d'Europa complessivamente un quarto dei giovani tra i 17 e 25 anni è disoccupato, tale tasso tende piuttosto a crescere che a diminuire.
Il fatto che dall'interno delle società industriali avanzate (tanto avanzate che si comincia a parlare di post-industrialismo) si levino voci sempre più forti di critica al meccanismo di crescita e di espansione che le ha generate, non deve dunque meravigliare e non esprime solo una esigenza morale che si può permettere chi già vive nell'abbondanza. Da un lato la prosecuzione della dinamica sin qui dominante ha imposto -- anche all'interno delle società "avanzate" -- dei costi e dei rischi che ora stanno passando il limite, dall'altro la spaventosa disuguaglianza creata dal meccanismo contiene tanti e tali pericoli derivanti dagli squilibri "esterni" da suscitare giustificate preoccupazioni. E non sono, infine, da sottovalutare proprio quelle esigenze morali, di giustizia, di uguaglianza, di pace che -- per quanto "immateriali" o "post-materiali" possano essere -- si levano pur sempre con maggior forza quando la stessa sopravvivenza delle condizioni materiali di benessere ne vengono a dipendere.
Ma se sono, dal punto di vista soggettivo, i "nuovi movimenti" a imporre con maggior vigore il tema dei "limiti della crescita" ed a farne una pietra angolare della loro riflessione sulla società e le possibilità di trasformazione sociale, bisognerà pur riconoscere che "oggettivamente" questa tematica viene sollevata dalla crisi che finisce per mettere in discussione anche importanti modelli teorici, tra i quali sono da annoverare non solo le concezioni operaiste industrialiste ed economiciste che si richiamano al marxismo, ma anche la più accreditata strategia anti-crisi che il capitalismo moderno dei paesi avanzati abbia sinora generato e la sinistra (socialdemocratica o comunista che fosse) di quei paesi sostenuto: il neo-keynesianesimo, ovvero quell'indirizzo di politica economica che usava la spesa pubblica e l'intervento dello Stato nell'economia per correggere gli automatismi selvaggi e le ripercussioni recessive o inflattive del ciclo economico "spontaneo". Oggi la possibilità di applicare con successo delle politiche neo-keynesiane (magari "di sinistra") appare già fortemente compromessa e non a caso viene sostituita dalle diverse varianti del "reaganismo": tentativi di rilanciare il capitalismo con una drastica riduzione delle prestazioni dello "stato sociale" (welfare state) e restituendo al capitale privato ben più ampi spazi di manovra e di iniziativa, liberando dal fardello di molti dei limiti sociali sin qui imposti.
Infine una nota: i limiti della crescita, che sono stati sin qui richiamati, ovviamente non agiscono automaticamente con la stessa intensità nei confronti di tutti i diversi soggetti dell'economia, anche prendendo in considerazione i soli paesi sviluppati. Mentre rispetto ad alcune risorse o settori si può forse sperare di "farla franca" ancora per un periodo prolungato. Tale disomogeneità finisce per stimolare, una volta in più, la concorrenza "anarchica" tra i diversi capitalisti (privati o di stato), in un corsa al "si salvi chi può", "si accaparri le risorse chi può". Dal punto di vista del singolo operatore (ma anche del singolo paese, del singolo settore economico, ecc.) una logica di questo genere può apparire pagante, almeno nel breve periodo. Ma da un punto di vista generale è fuor di dubbio che l'operare in un sistema più vicino al limite della crescita e il puntare ad uno sviluppo non più soprattutto quantitativo postula l'introduzione di ordinamenti fortemente orientati a criteri sociali e non privati. Per dirla con Ruffolo: "il passaggio alla crescita zero, prima o poi inevitabile, non è compatibile con la struttura del capitalismo. Occorre dunque modificare la struttura del sistema, perchè esso sia in grado di raggiungere uno stadio organico di maturazione: un equilibrio ecologico e sociale stabile". Un punto di vista "verde" comporta dunque un maggiore, non un minore "bisogno di socialismo", intendendo per questo un sistema le cui decisioni riescano a privilegiare l'interesse collettivo e sociale (compreso quello delle generazioni future) rispetto a quello privato ed immediato.
Concludendo questa parte del discorso, va quindi notato che dalla sicura previsione che "le vacche grasse non torneranno più", la prospettiva che più credibilmente emerge -- a meno che non si pensi alla rigenerazione derivante da un crollo catastrofico -- è comunque quella di una "decelerazione" complessiva del sistema industriale avanzato, di un "atterraggio morbido" verso un equilibrio stabile basato non più sulla coazione a crescere, o - in altre parole - la ricerca di uno "sviluppo equilibrato" che -- nella definizione del già ricordato saggio di Ruffolo -- dovrà caratterizzarsi per:
a) una diversa allocazione delle risorse (vincoli all'uso e spostamento dal mercato delle risorse); b) una profonda modificazione dell'occupazione (riduzione della durata e redistribuzione del lavoro); c) una diversa distribuzione del reddito (in senso egualitario); d) un rapporto profondamente modificato tra le economie avanzate e quelle arretrate.
Dalla crisi, ormai apertasi, del modello basato sulla crescita quantitativa e quindi disorganica, emerge - come possibilità, non certo como conseguenza automatica - una prospettiva di profonda riconversione verso un modello di sviluppo che dal punto di vista quantitativo dovrà approdare alla "crescita zero" e spostarsi verso uno sviluppo assai più qualitativo. "Crescita zero - sviluppo intero", uno slogan ormai adottato dagli ecologisti italiani - riassume bene questo obiettivo; discutere se sia da definire rivoluzionario o meno, mi pare ozioso.
3. Cosa c'entra il sindacato con tutto questo?
A prima vista potrebbe forse sembrare estraneo alle tematiche sindacali una riflessione che voglia coniugare sindacato e limiti della crescita. Ma chiunque vi si soffermi un attimo con maggiore ponderazione, intuirà facilmente l'enorme importanza della questione (ed il fatto che qui venga proposta senza alcuna autorevolezza e senza la competenza di cui ben altri studiosi potrebbero avvalersi, non deve offuscare il problema in sè). Sinora, infatti, i sindacati italiani -- pur con accentuazioni e differenze non sostanziali -- hanno operato o in periodi di espansioni, con l'obiettivo di una più equa e favorevole redistribuzione dei suoi benefici, o in periodi di recessione, con l'obiettivo di un rilancio della crescita come premessa di una adeguata e soddisfacente distribuzione, in favore dei propri rappresentanti. Sostanzialmente, però, il sindacato ha sempre rispettato i vincoli di fondo che derivano dal mercato mondiale e dal sistema capitalistico in genere (competitività delle aziende; competitività internazionale del paese).
Ricordiamoci le tappe fondamentali dell'azione rivendicativa del sindacato degli ultimi 15 anni. Schematicamente possiamo distinguere i seguenti due grandi gruppi di obiettivi, articolati variamente nel tempo:
I. Retribuzione e costo del lavoro (aumenti salariali, anche ugualitari; pensioni, abolizione delle gabbie salariali, contingenza, ecc.), e condizioni ed organizzazione del lavoro (qualifiche, categorie, cottimo, nocività, ferie, turni, mansioni, lavoro-studio, livelli carriere, carichi di lavoro, tempi, diritti sindacali e dei lavoratori, ecc.).
II. Riforme sociali (casa, salute, trasporti, ecc.), investimenti e controllo degli investimenti, "modello di sviluppo", mercato del lavoro (Mezzogiorno, ristrutturazioni e riconversione produttiva, cassa integrazione, collocamento, occupazione giovanile, "diritti di informazione", ecc.).
Altrettanto schematicamente si può dire che i successi dell'azione sindacale si sono registrati decisamente più sul primo che sul secondo dei due piani di obiettivi ricordati; le rivendicazioni del secondo elenco sono rimaste inefficaci - e non è questo il luogo per domandarsi i perché - e si collocavano, comunque, sostanzialmente anch'esse in una logica in cui lo "sviluppo" era il presupposto necessario del cambiamento e della riforma.
Non voglio certo affermare che tutte le lotte sviluppate e tutti gli obiettivi strategici via via perseguiti dal sindacato non abbiano inciso sulle condizioni di lavoro e sociali dei lavoratori, oltre che sulle condizioni di accumulazione e circolazione del capitale, sui profitti, sui rapporti di forza complessivi tra le classi. Ma appare difficilmente negabile che - in ultima analisi - la prospettiva di fondo era pur sempre chiaramente così caratterizzata: quando l'economia tirava, occorreva spostare reddito e potere dalla parte dei lavoratori; quando l'economia mostrava segni di crisi, si mirava alla ripresa economica, per continuare ad assicurare un certo benessere ai lavoratori o almeno per difendere le loro condizioni contro eccessivi arretramenti; presupposto comune era sempre e fondamentalmente che l'economia della crescita non venisse messa in discussione, anzi, essa costituiva la condizione e premessa dell'azione rivendicativa sindacale. Non a caso si è potuta ripetutamente ipotizzare quell'"alleanza tra produttori" che avrebbe dovuto unire padroni ed operai dell'industria nella comune difesa dello "sviluppo" contro il parassitismo e gli sprechi dei settori "improduttivi".
Oggi, con la crisi divenuta più acuta e profonda, appare ancora più scontato ed accettato il fatto che il sindacato debba appoggiare e difendere -- talvolta in maniera persino disperata -- situazioni produttive che non si possono sicuramente ricondurre ad alcun "nuovo modello di sviluppo", ma che riflettono il puro e semplice (seppure comprensibilissimo) attaccamento operaio al posto di lavoro purchessia, visto che in genere è privo di alternativa.
I casi di operai e sindacati impegnati a sostegno aperto di produzioni belliche e militari, di produzioni chimiche o farmaceutiche anche nocive (per gli operai, per i consumatori, per l'ambiente), di distruzioni e scempi del territorio (cave, edilizia, autostrade...), di investimenti assolutamente privi di valore sociale non sono l'eccezione, ma la regola. O forse qualche operaio o sindacato ha denunciato che a Seveso si lavorava con la diossina, che certe costruzioni autostradali rovinavano l'equilibrio idrogeologico di intere regioni, che le cave di Cembra o dei Colli Euganei distruggono preziosi paesaggi, che molte industrie alimentari compromettono gravemente la salute dei consumatori, e via di seguito, senza fine?
Forse che da parte sindacale è mai venuta una critica ed opposizione efficace a scelte produttive orientate unicamente ai profitti privati -- nella logica espansiva -- che comportavano e comportano enormi sprechi sociali e sono giustificabili unicamente in nome di un forsennato sostegno alla crescita quantitativa, anche in danno alla tanto lodata "qualità della vita" dei cittadini e degli stessi lavoratori? Produrre sempre nuove automobili, frigoriferi, televisori, ecc. per consumatori già saturi e mercati gonfiati da una domanda artificiale creata dalla pubblicità è forse compatibile con un "nuovo modello di sviluppo"?
Non è, ovviamente, un caso che praticamente non si trovino tracce di simili dibattiti nella letteratura sindacale.
Non è, ovviamente, alcuna "malvagità" sindacale o operaia che ha portato il sindacato a muoversi sempre all'interno del quadro dettato dalle leggi del mercato capitalistico, rimanendo ad esso subalterno nei propri schemi rivendicativi e di contrattazione. Da quando il modo di produzione capitalistico (vigente anche dove lo Stato si è sostituito ai capitalisti privati) ha separato i produttori dai mezzi di produzione,dal prodotto e dai destinatari del prodotto, l'azione operaia e sindacale si è sempre svolta da un lato all'interno di queste regole (lotte rivendicative), dall'altro ha operato per superare o rovesciare il capitalismo (lotte politiche rivoluzionarie).
Oggi si tratta di discutere se sia immaginabile per il sindacato introdurre la prospettiva di una crescita economica comunque assai ridotta ed eventualmente consapevolmente limitata come orizzonte nuovo e fecondo della propria azione: sicuramente si tratterebbe di una innovazione assai radicale e profonda, che modificherebbe drasticamente una linea che oggi, nella migliore dell'ipotesi, è attestata su una sorta di "keynesianesimo di sinistra" entrato chiaramente in crisi: spese sociali, aumento del potere d'acquisto dei salari come motore del rilancio economico, la spesa pubblica come volano di nuova accumulazione del capitale, il tentativo di imporre vincoli ed obiettivi sociali a questo rilancio.
4. Il sindacato e le possibili alternative
Parlare di possibili alternative, e di una ipotetica revisione radicale della strategia sindacale in direzione di un modello che faccia dichiaratamente i conti con una "crescita decelerata" e tendente alla "crescita zero", e che magari voglia addirittura favorire una riconversione dell'economia in tale direzione, è ovviamente assai difficile. Bisogna considerare, soprattutto, che - permanendo il quadro capitalistico globale - il sindacato si troverebbe a muoversi "in mezzo al guado", come più in generale si troverebbe "in mezzo al guado" chiunque (autorità politica o anche settore economico, singolo imprenditore, ecc.) volesse procedere ad una riconversione dell'economia in chiave "ecologica" e orientata ad un "equilibrio stabile" invece che alla crescita.
Alcuni degli obiettivi di una politica economica così indirizzata vengono individuati dagli autori che ne discutono nella prospettiva di un "modello di sviluppo equilibrato" che comporterebbe profonde trasformazioni:
---- rallentamento e tendenziale arresto "pilotato" della crescita economica;
---- riconversione in senso ecosociale della produzione e dell'economia (da quantità e qualità): spostamento di investimenti nei settori socialmente ed ecologicamente qualificati, "consumare meno per vivere meglio", espansione del lavoro socialmente utile e ridimensionamento di quello socialmente inutile o dannoso; fondamentale redistribuzione e diversa allocazione delle risorse;
---- parziale sganciamento dagli automatismi e dalle costrizioni del mercato mondiale e radicale revisione del rapporto con i paesi sottosviluppati;
---- introduzione parziale di settori economici sganciati dal mercato interno (non l'economia statalizzata, ma settori orientati alla sussistenza, non al mercato); "economia duale";
---- radicale redistribuzione del lavoro (tra l'insieme della popolazione; nella giornata, settimana, anno, vita lavorativa; tra lavoro retribuito e non retribuito, ecc.);
----profonde modificazioni conseguenti nel settore della c.d. "riproduzione": consumi, tempo "libero", cultura, socialità ecc.: non più complementare alla sfera della posizione, ma con ampio sviluppo di nuovi valori e comportamenti.
Per dirla in soldoni: una riconversione dell'economia nella direzione qui accennata -- di portata rivoluzionaria ed eversiva, rispetto al modello capitalistico dominante -- comporterebbe una radicale riduzione del "mercato" (dove i lavoratori, il lavoro, i prodotti, i consumi, gli scambi hanno carattere di merce e sono fungibili) ed una decisa espansione dei settori "fuori mercato" che portano i loro valori specifici in sè e non sono riducibili a merci interscambiabili. In parte una simile riconversione non potrà che essere frutto di un profondo cambiamento anche politico, ma in parte l'avvicinarsi degli stessi limiti della crescita lo impone fin d'ora. E non si tratta di una ipotesi di "austerità" in vista del rilancio dell'accumulazione e dello sviluppo, con tanto di riabilitazione del profitto e di una redditività delle imprese misurata secondo i criteri del mercato: in questo senso l'ipotesi di cui si parla si distingue nettamente dalla linea rappresentata negli anni 1977/78 dal PCI e poi affermatasi, con la "linea dell'EUR", anche nel sindacato, anche se forse in quella riflessione si possono scorgere punti interessanti.
Il sindacato, di fronte ad una possibile prospettiva di questo genere, appare oggi nettamente impreparato - come, del resto, anche gli altri protagonisti della politica economica attuale. D'altra parte è evidente che esso potrebbe intervenire con grande peso ed efficacia, se decidesse di farlo, per promuovere e sostenere un modello di sviluppo davvero nuovo ed alternativo alla logica capitalistica e della crescita quantitativa: lo potrebbe fare sia con una sua azione "politica" per imporre una radicale correzione di rotta nell'attuale "modello di sviluppo" riproposto, senza sostanziali alternative, in diverse varianti da tutte le parti direttamente in causa: ma lo potrebbe - forse anche più efficacemente - iniziare con una revisione ed un riaggiustamento, nella nuova ottica, della sua azione contrattuale e rivendicativa, della stessa sua presenza in fabbrica e nei luoghi di lavoro, oltre che nella società.
Perché ha definito "impreparato" il sindacato rispetto ad un'ipotesi del genere? Non certo solo perchè sinora nel sindacato non se ne discute praticamente affatto, ma soprattutto per alcune caratteristiche strutturali del sindacato e del sindacalismo: è fortemente legato ad una logica quantitativa e poco abituato ad intervenire sugli aspetti qualitativi della produzione e del lavoro (cosa si produce, quale lavoro è socialmente utile, ecc.); si caratterizza per un'impronta sostanzialmente produttivistica; ha puntato in genere ad una redistribuzione della ricchezza che si basava sulla ulteriore crescita della ricchezza complessivamente prodotta; il suo orientamento e la sua politica sono fortemente "industriocentrici" (l'industria viene vista come garanzia di progresso e benessere; alla logica dell'industrialismo si ispira l'azione sindacale); rappresenta - ovviamente - i lavoratori occupati che tendono a difendere la loro occupazione purchessia; si muove nell'ambito di una cultura economica e politica essenzialmente permeata dall'idea della crescita come condizione ed obiettivo del funzionamento del sistema.
Neanche alcune interessanti rivendicazioni o impostazioni nuove degli ultimi anni (riguardanti, per esempio, il mercato del lavoro, la discussione sui "contatti di solidarietà, la mobilità, ecc.) sembrano aver intaccato la sostanza degli orientamenti sindacali consolidati, anche se si possono notare interessanti e significative variazioni di accenti tra le diverse confederazioni ed i diversi sindacati di categoria (per es. nella discussione sul "part time" o sul pre-pensionamento).
5. È immaginabile un "sindacato verde"?
Probabilmente è ancora presto per porre in Italia esplicitamente la domanda, se nel mondo sindacale possa emergere una esplicita tendenza "verde", un tentativo -- come ormai avviene in qualche altro paese, per esempio in Germania federale - di affrontare l'obiettivo di una riconversione ecologista della società a partire dall'azione organizzata dei lavoratori riuniti nel sindacato.
Se succedesse, si possono immaginare alcuni terreni privilegiati sui quali dovrebbe/potrebbe svilupparsi la sua azione di lotta e di rivendicazione, quali per esempio:
---- controllo, limitazione ed indirizzo dello sviluppo tecnologico e delle stesse scelte produttive, in vista di uno "sviluppo equilibrato" ed ecologico;
---- sensibile redistribuzione del lavoro socialmente necessario tra lavoro "formale" ed "informale", cioè tra lavoro mercificato (necessario per la grande maggioranza dei lavoratori per garantirsi la sussistenza) e lavoro non mercificato; incremento del lavoro autogestito, ai margini del mercato; profonda revisione del rapporto occupazione/disoccupazione;
---- promozione di ricerche e sperimentazione di economia "alternativa" e "duale" (mercato/fuori mercato): cooperative autogestite, settori orientali alla sola sussistenza, non al mercato, ecc.;
---- promozione di abitudini e scelte assai diverse rispetto ai consumi; rivendicazioni "sociali" ed "ecologiche";
---- intervento sulle tematiche dello sviluppo "post-industriale" (telematica, informatica, ecc.);
---- coraggiosi interventi sulla questione dell'orario di lavoro, il tempo libero, ecc.;
---- interventi e rivendicazioni che pongano direttamente il problema di un diverso rapporto con i paesi sotto-sviluppati (scambi, cooperazione per lo sviluppo, ecc.);
---- interventi e rivendicazioni per valorizzare forme di retribuzione non-monetaria e non-consumistica (cultura, uso del tempo libero, servizi sociali e culturali, ecc.).
In effetti bisogna riconoscere che i soggetti più interessanti e/o sensibili ad una "conversione verde" del sindacato, non sono da esso rappresentati: che si tratti dei potenziali nuovi partners del terzo mondo, o delle generazioni, o anche solo dei settori sociali e culturali, o generazionali, più interessati alla salvaguardia dell'ambiente; soprattutto: i lavoratori occupati temono (a ragione) che i loro interessi materiali del breve periodo confliggano con gli interessi di chi - come i disoccupati, per esempio - ricaverebbero più immediati benefici dalle necessarie redistribuzioni. Ed è per chiunque, e quindi anche per il sindacato, difficile fare una politica che contrasta con gli interessi di breve periodo della propria base di rappresentati.
Ecco perché non c'è da meravigliarsi se i nuovi movimenti che pongono con maggiore insistenza i temi inerenti ai "limiti della crescita" e ad un nuovo equilibrio ecologico anche dell'economia si sviluppino piuttosto fuori dai sindacati e talvolta in conflitto con essi, e se all'interno stesso del dibattito sindacale simili esigenze possano magari essere viste con minore diffidenza da settori o categorie un po'"sospette" agli occhi del movimento operaio tradizionale (settori ideologicamente meno legati alle tradizioni ufficiali; settori e categorie dove il lavoro "post-industriale" comincia ad essere una realtà, settori fortemente acculturati o femminili, ecc.).
Ma forse si tratta, per il sindacato nel suo complesso, di cominciare a "...studiare un nuovo orario ferroviario: per evitare di perdere un treno decisivo".
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in Verde, UIL
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2 Dicembre, 2014
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Davanti al prolungarsi della crisi che avvolge l’Ilva di Taranto, sembra ormai inevitabile il ricorso a una qualche forma di intervento pubblico. Lo ha ribadito lo stesso presidente del consiglio Matteo Renzi, quando in una recente intervista a la Repubblica si è lasciato sfuggire: “Ci sono tre ipotesi. L’acquisizione da parte di gruppi esteri, da parte di italiani e poi l’intervento pubblico. Non tutto ciò che è pubblico va escluso. Io sono perché l’acciaio sia gestito da privati. Ma se devo far saltare Taranto, preferisco intervenire direttamente per qualche anno e poi rimetterlo sul mercato”.
Le prime due ipotesi sembrano essere al momento del tutto illusorie. Il disastro ambientale tarantino (l’incapacità, o la non volontà, di coniugare diritto al lavoro e diritto alla salute) non è solo il prodotto di quasi vent’anni di gestione privata dei Riva. È la fotografia impietosa dell’intero settore siderurgico e, in generale, dell’intero sistema industriale italiano. La verità è in che tutto questo tempo non c’è stata alcuna alternativa al modello Riva.
Non c’erano offerte migliori di quella avanzata dal gruppo Riva, quando si decise nei primi anni novanta, dopo il fallimento delle partecipazioni statali, di privatizzare la più grande siderurgia d’Europa. Non ci sono state in questi anni, e la prova è anche nella crisi di tutti gli altri stabilimenti siderurgici del paese. Non ci sono ora: dal gruppo Marcegaglia al gruppo Arvedi, chiunque voglia rilevare l’Ilva ha avanzato solo intenzioni fumose, senza presentare alcun piano che concretamente dia un futuro alla fabbrica, e risolva la devastante situazione ambientale.
Offerte valide non sono arrivate neanche da gruppi esteri. Per mesi a Taranto si è vociferato che l’Ilva potesse rilevarla Arcelor Mittal, il colosso franco-indiano-lussemburghese, principale produttore mondiale di acciaio. Ma gli ostacoli all’intervento di un papa straniero per l’acciaio sono due.
Il primo: Arcelor Mittal chiede di fatto una sorta di potere d’intervento extragiudiziale, e cioè di agire come se fossero sospesi i processi giudiziari in atto, in primis quello per disastro ambientale. Il ragionamento è più o meno il seguente: non possiamo entrare in una partita tanto complicata, accollarci errori che non abbiamo commesso noi, e poi essere risucchiati nelle beghe politico-giudiziarie italiane. Il punto cruciale, tuttavia, è che anche il colosso indiano non ha comunque presentato nessun piano che tenga realmente insieme tenuta dei livelli occupazionali e realizzazione delle bonifiche.
E così arriviamo al secondo ostacolo: il pericolo che Arcelor Mittal intervenga unicamente per rilevare quote di mercato e smantellare tutto in pochi anni. Del resto anche in Francia il gruppo ha chiuso l’importante stabilimento di Florange senza dare alcuna risposta alle proteste dei lavoratori. E ciò è avvenuto proprio in una di quelle regioni del paese in cui deindustrializzazione, disoccupazione e ascesa impetuosa del Front national sono andate di pari passo.
L’affermazione di Renzi, peraltro condivisa dai sindacati, coglie in pieno questo vuoto. Per questo è probabile che non si tratti di un semplice annuncio propagandistico, ma che realmente si arrivi in tempi brevi a intervento diretto dello stato.
Ma in che forme? E soprattutto con quali soldi? Già ora, per applicare l’autorizzazione integrata ambientale che dovrebbe arginare l’inquinamento, favorendo la copertura dei parchi minerari e la trasformazione della fabbrica, servono almeno 1,8 miliardi di euro. Questi soldi non ci sono. Le casse dell’Ilva sono vuote, e in assenza di altro si fa affidamento sugli 1,2 miliardi sequestrati dal tribunale di Milano ai Riva per evasione fiscale, in un processo che non c’entra nulla con quello tarantino sull’ambiente. Ma quei soldi non sono ancora nelle casse dello stato, né del commissario che dovrebbe utilizzarli. Non solo perché sulla misura del tribunale pende un ricorso in cassazione, ma soprattutto perché i soldi sono materialmente dispersi in trust nel canale della Manica di proprietà della Ubs, la quale ha fatto da tempo sapere che consegnerà l’ingente somma solo quando si sarà concluso l’intero procedimento, ancora agli inizi, per evasione fiscale. Detto in altri termini: allo stato attuale ci vogliono anni.
La grande maggioranza degli attuali 13mila dipendenti dell’Ilva (molti dei quali in cassa integrazione) ha trent’anni. Erano poco più che bambini quando l’Italsider diventò Ilva, quando il colosso pubblico fu privatizzato. In questi anni hanno sperimentato sulla loro pelle il disastro creato dalla gestione privata. Poco sanno, però, del fallimento dell’Iri che portò a quel passaggio. Un fallimento che è l’altra faccia della medaglia del fallimento della prima repubblica.
Un nuovo intervento pubblico oggi può aver successo solo se si evitano gli errori commessi nel passato. Non si tratta solo di valutare attentamente chi dovrà mettere i soldi necessari (il fondo strategico? la Cassa depositi e prestiti?) e quanti anni ci vorranno prima di rivendere il pacchetto ripulito al miglior offerente, come lascia intendere l’affermazione di Renzi.
Si tratta di ripensare, a partire proprio da Taranto, la politica dell’acciaio per l’intero paese e di ricreare un alto livello di competenze pubbliche per la gestione di un caso delicatissimo. Soprattutto, occorre non nascondere sotto il tappeto i cumuli di polvere prodotti da quel disastro ambientale che secondo la procura del capoluogo jonico è ancora in atto.
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