25.11
COMUNITÀ LOCALE, MINORANZE ETNICHE E REALTÀ DELL’IMMIGRAZIONE
L’EREDITÀ DI LANGER SCHIERATA SUL BRENNERO
Alexander Langer
Alessandro Leogrande
1 Luglio, 1990
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Penso di aver capito abbastanza bene il tipo di situazione e forse anche l'inquietudine che c'è dietro la richiesta di questo mio intervento.
Mentre vi parlo penso alle situazioni analoghe del Sudtirolo da cui provengo. Noi siamo in una situazione in cui per diversi decenni si è lottato per l'affermazione, la difesa, la conservazione della propria identità linguistica, per l'autogoverno, i diritti culturali, ecc... Oggi c'è un certo assestamento, anche una certa convivenza, direi bene accettata dalla maggioranza della popolazione. Adesso molti dicono: "perché dobbiamo farci turbare questo equilibrio difficilmente raggiunto dall'arrivo di persone che vengono da lontano? " Nel nostro caso non è tanto la componente dell'Est, che voi forse qui sentite più da vicino, per ragioni anche geografiche, ma l'altra componente, quella africana e mediterranea.
In più c'è da noi anche un altro tipo di immigrazione, che non si definisce direttamente così, ma che probabilmente si annuncia crescente. È l'immigrazione dei ricchi, sotto forma di proprietari di seconde case, di villette.
Questo sarà il destino, probabilmente, di tutte le zone particolarmente belle, tipo ai laghi, lungo i pendii a nord e sud delle Alpi, ai mari, ecc.. Perchè appunto i ricchi, non gli extracomunitari, ma i comunitari della Comunità europea, tenderanno sempre di più a fuggire dalle metropoli o almeno a precostituirsi anche una seconda casa.
Spesso sono quelli che possono acquistare la casa gotica o il maso contadino, che viene comprato, restaurato e poi destinato a usi evidentemente totalmente diversi da quelli di origine. Un'analoga preoccupazione c'è in Toscana o in Umbria, dove si vedono arrivare i nuovi amanti della vita semplice, in campagna, provvisti di sufficienti soldi per comprarsela.
Inoltre oggi a Bolzano, in particolare nelle scuole italiane, i giovani di madre-lingua italiana, discutono questa significativa domanda: se convenga loro, superando l'avversione verso i Sudtirolesi di lingua tedesca, allearsi con loro contro i neri o se, viceversa, tutto sommato è meglio che arrivino i neri a rompere le scatole anche agli altri...
Io vorrei cominciare un po' da questa considerazione, che non è particolarmente confortante, per porre delle riflessioni, delle conclusioni in rapporto al problema dell'immigrazione.
Fenomeni migratori: una costante della storia umana
Nel corso della storia ci sono stati molti periodi, anzi possiamo dire che non ci sono periodi in cui grandi masse di persone non si siano spostate. Questo lo possiamo ricostruire lungo tutto il corso della storia anche molto recente, e voi che siete oggi terra di immigrazione e contemporaneamente forse ancora, comunque fino a poco tempo fa, terra di immigrazione, ne avete una conoscenza molto immediata e diretta. Le ragioni possono essere di volta in volta varie. Quelle più antiche di cui sappiamo, sono probabilmente addirittura di ordine climatico. Quando ad un certo punto certe terre diventavano troppo fredde o troppo calde, perché anche questo è possibile, o per esempio, se effettivamente il progresso dell'effetto serra dovesse far alzare il livello dei mari, probabilmente quelle che oggi sono zone costiere non saranno più abitabili e la gente dovrà indietreggiare.
Così ci sono state nella storia immigrazioni dal nord dell'Europa verso il sud, come nel periodo delle guerre di Troia.
Poi migrazioni per ragioni di pascolo insufficiente e più in generale per ragioni di sussistenza. Nelle epoche storiche a noi più vicine, in questi ultimi duemila anni, per ragioni che io adesso non saprei con sufficiente sicurezza definire, le migrazioni hanno avuto prevalentemente una direzione est-ovest. Ora mi sembra che ci siamo avviando di più verso una direzione sud-nord. Questa della migrazione est-ovest ha per esempio prodotto, mi pare in modo durevole, in europea e in particolare in questa zona e in altre zone affini, uno choc permanente nei confronti dell'est.
L'est è guardato come la terra da dove vengono rispettivamente i persiani, poi i greci, poi i turchi..., gli unni per noi, gli avari per gli ungheresi e per noi, gli slavi rispetto al mondo sia di lingua tedesca che di lingua italiana.
Basti pensare, ad esempio, all'ancestrale paura del tutto oggi irragionevole, che c'è nei confronti degli sloveni da parte degli italiani a Trieste o degli Austriaci a Klagenfurt.
La profondità di questo rifiuto, di questa avversione, a volte il disprezzo, ha probabilmente qualcosa a che fare con questa paura di vedere arrivare le orde dell'est. Come la Russia rispetto ai tartari. Diciamo che a questa direzione est-ovest appartiene anche la nostra emigrazione europea verso le Americhe.
Da questo io non voglio far derivare nessuna teoria. Le migrazioni hanno avuto di recente origini meno climatiche, meno derivanti dall'agricoltura o dalla pastorizia, e più legate a ragioni politiche e culturali. Sono molto frequenti in europea e anche consistenti, le migrazioni che hanno avuto a che fare con persecuzioni religiose piccole o grandi, causate, per esempio, dall'avanzamento dei turchi. Questo fenomeno, dalla fine del '400 al '700 grosso modo, ha prodotto grandi migrazioni in Italia. Voi sapete che in Italia del sud esistono comunità albanesi che sono lì da quando l'Islam ha conquistato i Balcani. Esiste anche un'eparchia degli albanesi a Piana degli Albanesi in Sicilia; esistono comunità albanofone sparse in tutta l'Italia meridionale.
Abbiamo avuto migrazioni derivanti anche da persecuzioni all'interno del cristianesimo. Nel Tirolo, per esempio, gli ultimi protestanti sono stati esiliati 120 anni fà. Si è resa loro impossibile la vita. Se ne sono andati alcuni in America, altri in Moravia. La Moravia è stata per un lungo tempo, anche nel periodo della Riforma, terra accogliente per i dissidenti religiosi. Quando poi ha vinto la Controriforma è subentrata una spinta a fuggire in America. Ci sono ebrei, cacciati dalla Spagna e Portogallo cattolico, che sono finiti fino alle foci del Danubio, in Bulgaria, in Romania.
Anche il mosaico - questo è forse importante per noi qui -
delle particolarità etniche, delle identità etniche che spesso presentiamo come gemme in qualche modo preziose e anche difficile da difendere, questo mosaico spesso risale, andando indietro di qualche secolo, alle migrazioni. Anche voi sapete che la stessa storia della fondazione di Venezia o se volete del declino di Aquileia, sono processi di questo genere.
A me sembra che la cosa più nuova, e in questo senso possiamo dire anche più inquietante, è che probabilmente non ci sono stati almeno in epoca storica (in epoca preistorica non lo so; non so per esempio gli effetti dei processi di glaciazione rispetto alle specie viventi) periodi con turbamenti così profondi di equilibri naturali come li abbiamo oggi. Anche se non tutti gli effetti sono ancora visibili.
Questo è il periodo dei maggiori squilibri
La dimensione degli squilibri non è mai stata cosí grande come oggi. Squilibri naturali molto forti tra desertificazione e terre ben coltivabili. Squilibri che tenderanno ad accentuarsi con processi di degrado di inquinamento. Squilibri molto forti tra città e campagne. Non c'è mai stato un periodo della storia del mondo con tanta gente concentrata nelle città e con le campagne così spopolate rispetto alle cittá.
Squilibri molto forti tra povertà e ricchezza. La distanza tra povertà e ricchezza nei secoli passati era grande. Pensiamo all'abbondanza in cui poteva vivere un conte, un re, un duca del medioevo rispetto ai poveri del suo tempo. Ma la distanza non è comparabile al fenomeno odierno, al dislivello fra la nostra società industrializzata e i popoli poveri. Oggi c'è la distanza tra un'economia ricca e un'economia povera. In epoche preindustriali era una distanza tra terra fertile e terra meno fertile o poco fertile; tra chi aveva anche pastorizia e agricoltura sedentaria e chi era più nomade, tra chi era più esposto all'incertezza delle stagioni o magari alle alluvioni, eccetera.
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Oggi i problemi sono ben più complessi
Pensate, ad esempio, a come era considerata ai tempi dei romani l'isola di Cipro: un paradiso. Cicerone è stato governatore a Cipro: una cuccagna. La Sicilia era non solo un granaio, ma una terra molto ricca. Altre terre erano considerate più povere perchè più montuose. Squilibri che potevano essere creati in quei tempi, credo anche in Friuli, erano squilibri causati a volte da disboscamenti fatti per costruire navi. Noi nella nostra provincia abbiamo valli che sono state disboscate dal '400 in poi per opera dei veneziani che venivano a prendersi il legname lontano, quando avevano già raso al suolo quello vicino.
Però non é niente rispetto ai processi che avvengono oggi.
In questo senso, lo dico, anche se è una cosa spiacevole, dobbiamo sapere che dove ci sono grandi squilibri è inevitabile che si realizzino molte spinte verso un qualche riequilibrio, che si cerchi insomma una compensazione, con tentativi di rivincite militare o economica.
I grandi squilibri odierni.
Nel tipo di società industriale in cui viviamo, tutto ciò che è sentito come valore - non parlo di valori spirituali - tende ad essere rigorosamente gerarchizzato e diventa difficile sapere che cosa è bene e che cosa è male. Il bene, per tutti, è avere molta disponibilità di reddito in denaro e quindi tutto quello che riesce a produrre denaro uniforma il concetto di benessere. In una società non industrializzata invece, il concetto di benessere è un altro: è bello che qui crescano le banane, che qui cresca il grano, che qui crescano i pomodori.
C'è una visione più variegata
Nella nostra civiltà il dominio del fattore economico è diventato talmente grande che la scala con la quale si valutano benessere o meno, è univocamente il parametro economico. Questo produce, da tutti i punti di vista, una forte competizione tutta concentrata sul fattore dell'economia.
Anche altri fronti, non meno competitivi che un tempo erano sul tavolo dei rapporti fra i popoli, ad esempio, la demografia, oggi valgono poco. Oggi il fatto di essere in tanti o in pochi pesa meno che il fatto di avere un forte potenziale economico in denaro e comunque trasformabile in denaro.
In questo senso la nostra società tende in qualche modo a funzionare un po' come ce lo dice la pubblicità. Tutti vogliono la stessa cosa; tutti convergono verso lo stesso obiettivo e quindi tutti vorrebbero vivere negli stessi posti. Viviamo una società dell'intasamento, che propone a tutti, sollecita tutti ad aspirare alla medesima cosa, a voler vivere negli stessi posti, avere benessere caratterizzato da un'economia di denaro, passare le vacanze nello stesso luogo, divertirsi nello stesso modo, eccetera.
Molte persone ritenevano fino all'altro giorno che il più bel posto del mondo fosse dove vivevano; non perché era oggettivamente più bello, da depliant turistico, ma perché lo conoscevano e perché era loro congeniale; perché chi vive in pianura sa vivere bene in pianura e chi vive in montagna sa vivere bene in montagna, chi è abituato a un clima freddo sa vivere bene in un clima freddo.
Oggi invece questo equilibrio, questa simbiosi è fortemente turbata. Diciamo che l'umanità si trova, non solo sotto il profilo migratorio, sempre più come un immaginario utente che ha davanti il catalogo della Vestro, o di qualche altra ditta del genere, e sceglie. Chi ha stampato il catalogo sa già sostanzialmente cosa attirerà; sa che tutti vorranno le stesse cose, possibilmente tutte insieme.
In questo senso direi che non solo l'equilibrio delle risorse e delle economie è turbato ed è squilibrato, ma è fortemente squilibrato anche l'equilibrio tra i bisogni o i bisogni immaginari e le possibilità di soddisfare questi bisogni, nel senso che se tutti vogliano, se la società funziona in modo tale da far desiderare a tutti la casetta al mare, al lago o su quella montagna, non basta lo spazio del mare, del lago o della montagna, e così via.
La stessa cosa si potrebbe dire per i consumi energetici, per il tipo di alimentazione, per il tipo di economia, di casa, di abitazione, eccetera. La perdita, la progressiva perdita della capacità di adattarsi e di stare bene in contesti anche molto diversi tende ovviamente a produrre intasamento. Ciò che avviene sulle autostrade è un po' simbolico per quello che avviene in tutto il mondo. Siccome tutto devono aumentare la qualità del loro week-end muovendosi grosso modo alla stessa ora, nella stessa direzione, con lo stesso mezzo, questo produce intasamento. Eppure quella è la meta grosso modo universalmente accettata da tutti come valore e come qualità. Per questo non dobbiamo meravigliarci troppo se non possiamo affrontare i problemi per così dire a valle o nell'ultimo stadio. Quando i dodici o quindici immigrati arrivano a Udine oppure a Bolzano o altrove, tutto quello che c'è a monte è già successo.
Voglio aggiungere ora una considerazione
Ci chiediamo: è possibile che nel livello di consapevolezza di sè che l'umanità ha oggi raggiunto, pur con tutte le variazioni, si possa fare in modo che i processi, i tentativi di compensazione degli squilibri avvengano in modo meno violento che in passato? È possibile che oggi ci sia un sufficiente livello di consapevolezza, di maturità, se vogliamo anche potremmo dire di democrazia, di possibilità di decidere tutti un po', di avere un peso, perchè queste frizioni o forse anche questi scontri, che in qualche modo i processi di riequilibrio comunque provocherebbero o provocheranno, possono avvenire in modo meno violento di quanto non sia avvenuto in altre società? In passato, non c'è dubbio, i processi migratori sono avvenuti spesso con l'esercito in testa. Sostanzialmente tentativi di conquista, e viceversa poi di ripulsa, si manifestavano spesso in forma militare e quindi di scontro militare.
Pensiamo a certe date simboliche che ci vengono insegnante a scuola: Tours e Poitiers dove sono stati fermati i mussulmani che avanzavano nella penisola iberica fino ai Pirenei; la caduta di Costantinopoli, porta di ingresso per i turchi, e la fiumana riversata verso l'Europa; pure i turchi davanti a Vienna; la battaglia di Lepanto; o i persiani fermati dai greci, ecc... Sono il ricordo, magari a volte anche un po' esagerato nella storiografia, fino a diventare una leggenda, di un processo che è stato fermato o viceversa non si è potuto fermare.
Credo però che lo spazio in cui oggi per noi si pone la questione, debba essere un po' la ricerca di soluzioni per spostamenti, chiamiamoli, non violenti o il meno violenti possibile. Ci chiediamo anche se è possibile fare qualcosa per ridurre gli squilibri che spingono a queste alterazioni.
Alcune domande nella situazione attuale
Penso che ogni persona in Friuli abbia almeno un parente emigrato o conosca qualche emigrato. Ognuno probabilmente può confermare che in genere la gente non va via volentieri. Se uno avesse in qualche modo alternative sufficienti a casa, non partirebbe. Naturalmente questo ragionamento non vale per tutti, perché c'è anche chi - dobbiamo mettere in conto la varietà delle esperienze umane - se ne vuole andare, per le ragioni più varie. Uno può anche darsi che non sopporti più la faccia dei suoi concittadini. Ma parliamo dei grandi numeri e non dei progetti di vita personali che possono essere anche molto diversi da quelli che erano programmati nella condizione normale della nostra storia. Nonostante la spinta di andar via, sono il disagio, il bisogno, la necessità. Da questo punto di vista è possibile fare qualcosa, forse anche molto. Però prima di invertire la tendenza ce ne vorrà. Oggi purtroppo bisogna dire che il rapporto tra nord e sud del mondo porta a una tendenza di impoverimento del terzo mondo, del sud del mondo. In più, cosa che non dobbiamo dimenticare, l'imposizione di fatto dei nostri modelli di vita, sta avanzando velocemente e sembra quasi inesorabilmente anche nel terzo mondo.
Allora si capisce come una persona che ha visto il suo habitat, mettiamo amazzonico o della savana, trasformarsi in bidonville urbana, in quartiere misero di periferia urbana, decida di tentare la fortuna piuttosto in europea che in Africa o in America Latina. Tutto sommato, si capiscono le ragioni di chi cerca una strada nuova. Ed ora poniamoci alcune domande: è possibile riconciliare gli uomini con diverse possibilità di realizzazione di sè, che non comportino la necessità per tutti di concentrarsi nella medesima direzione?
È possibile rivalorizzare, per esempio, prospettive di vita che si svolgano in modo diverso dai nostri consumi, dal nostro urbanesimo, dalle nostre industrie e cosí via?
È possibile trovare delle vie persino positive, che costituiscano la prospettiva desiderabile di affrontare e in qualche modo di risolvere queste situazioni?
Verso un processo di contrazione
Mi sembra che la condizione per un eventuale riequilibrio, sia sostanzialmente quella di accettare che le nostre società inizino un processo di contrazione, un processo potremmo dire di fermo, o forse anche di impoverimento, o comunque un processo di conversione verso una maggiore frugalità, sobrietà, non so come chiamarla. Forse è necessario che noi smettiamo di correre, che facciamo persino qualche passo verso una certa deindustrializzazione e forse deurbanizzazione; o rallentare il nostro sviluppo, o forse moderarlo o forse in un certo senso anche fermarlo.
Verso nuovi modelli di società
Un'altra condizione: che nel contempo si crei un qualche equilibrio fra il nord e il sud del mondo. Mentre dico questo, io non penso solo a quando tutti mangeranno la stessa quantità di calorie, consumeranno la stessa quantità di kilowattore, avranno lo stesso livello di motorizzazione, ecc.
Spero che da questa corsa folle si riesca ad uscire prima che sia troppo tardi. Spero che altri popoli imparino, ad esempio, ad aspirare a modelli di vita meno dipendenti da una cosí forte e spesso nevrotica mobilità universale o motorizzazione qual'è da noi. Penso che il grado di mobilità, anche individuale, non sia automaticamente il supremo bene al quale un popolo aspira e che quindi chi, per esempio, "dovesse accontentarsi" di un grado di minore mobilità sociale complessiva, in questo vedesse necessariamente una punizione sociale ma forse un vantaggio o comunque un'altra possibilità di vita altrettanto degna. Però è chiaro che se il parametro non solo morale ma economico, il parametro che fa vincere, che dà il premio, è un altissimo tasso di motorizzazione individuale, non dobbiamo meravigliarci se tutti tenteranno di raggiungerlo. La stessa cosa si potrebbe dire di tanti altri settori: consumi di energia, alimentazione, rapporto tra prodotti industriali e prodotti della sussistenza. Se il benessere consiste nel fatto di avere, di poter ricevere tutto in scatola dalla produzione industriale, non dobbiamo meravigliarci se sempre più popoli distruggeranno in qualche modo l'orto dietro casa e finiranno al supermercato. E le nostre economie sono fatte per provocare esattamente questo, facendoci alla fine dipendere proprio dai surgelati.
Non egemonia ma equità
Il riequilibrio ha a che fare con due tipi di aggiustamento: uno nostro verso una maggiore sobrietà e uno loro verso una maggiore, chiamiamola, equità. Con equità voglio dire anche possibilità diverse di vita; e in questo non sottovaluterei il ruolo culturale.
Faccio un esempio che è molto controverso: prendiamo la storia del "velo" di cui hanno dato notizia i giornali. C'è in Francia, e non solo in Francia, un confronto con il mondo mussulmano. Viene posta la questione del velo, il velo delle donne, descritto come segno di arretratezza. Faccio un esempio con tutti i suoi limiti. Se dal punto di vista dell'egemonia culturale, cioè delle idee dominanti, il velo, portare il velo, ma potremmo anche dire parlare la propria lingua locale, è automaticamente bollato come segno di arretratezza, non dovremmo meravigliarci se poi appunto chi vuole "emanciparsi", non vorrà il velo e non vorrá la lingua locale.
Se i nostri modelli culturali sono fatti in modo tale da fermare continuamente, anche con la potenza economica dell' informazione di massa, la predominanza, la prevalenza, il valore superiore di certi tipi, di certi modelli, di certi comportamenti, non dobbiamo meravigliarci se aspirare a quelli, appare poi appunto la scelta vincente.
Si sente oggi dire: "investiamo nei paesi del Sud, cosí non vengono da noi". Mi sembra una risposta, diciamo, un po' eccessivamente contratta. È come dire: "piuttosto che avere dieci africani qui, mandiamo 1 milione di aiuti là". Mi sembra che sia un po' una scorciatoia, soprattutto fino a quando non vengono posti i problemi dei cambiamenti nella nostra società.
Anche mandando un premio purché tu te ne resti lì o purché tu te ne torni lì, se non si accorciano le distanze, se non si riapre la via a un reale pluralismo, alla possibilità di vivibilità e di culture diverse che convivono con pari dignità, tutte queste scorciatoie non possono funzionare.
Un equilibrio nelle proporzioni
C'è inoltre il problema delle proporzioni. L'immigrazione è probabilmente un po' come il turismo, scusate la macabra analogia. Quando si perdono rapporti accettabili, proporzioni accettabili, non lo si regge più.
Io so che non andrei mai, non riuscirei mai a passare le vacanze a Rimini. Nel senso che il rapporto tra turisti e locali è tale per cui non è più un posto con una sua, chiamiamola, vita. La stessa cosa potrei dire della Val Gardena o di tanti altri posti del genere.
Credo che una politica, una cultura, una via della convivenza, vorrei anche dire di più, dell'accoglienza, ha bisogno di proporzioni non eccessivamente squilibranti. In questo senso mi rendo ben conto che oggi noi non conosciamo quali strumenti democratici, strumenti umani, consentano di rispettare una qualche proporzione, anche perchè quando li si trasforma in legge e in burocrazia, tutto diventa molto difficile.
L'esempio del Sudtirolo
Apro qui una piccola parentesi sulla nostra esperienza sudtirolese, istituzionalizzata, anche se controversa. Dunque, quando c'è stata la lotta autonomistica, anni '50, '60, il motivo scatenante, il motivo che veramente ha fatto scendere la gente in piazza, per la prima grande manifestazione, è stato quello che veniva allora definito "marcia della morte".
Per "marcia della morte" si intendeva un processo che da un lato portava ad un aumento progressivo, anche se non schiacciante, di immigrazione italiana, e dall'altro nello stesso tempo, ad una certa sottile emigrazione sudtirolese.
Le ragioni erano queste: il mondo sudtirolese era allora essenzialmente rurale e la crisi agricola, anche se da noi molto più contenuta che altrove, non assorbiva i dieci-dodici figli della famiglia contadina.
Nello stesso tempo i posti di lavoro in città erano essenzialmente "italiani", perchè erano posti nel pubblico impiego. Quasi solo italiani per tante ragioni; non solo per discriminazione, ma anche perchè un sudtirolese senza titolo di studio adeguato non avrebbe potuto neanche concorrere ad occuparle.
Le industrie erano in gran parte recenti, soprattutto la grande industria italiana, in parte fondata sotto il fascismo e in parte subito dopo, e quindi lí era molto difficile che dei sudtirolesi trovassero lavoro.
Accadeva dunque questo processo: dei sudtirolesi se ne andavano e viceversa aumentava la percentuale italiana.
Questa "marcia della morte" ha portato alla lotta autonomistica e nel nuovo statuto d'autonomia, derivante dal "pacchetto", è stata accettata dallo Stato italiano una norma, diciamo, "antimmigrazione".
Ovviamente non si poteva scrivere che un cittadino della repubblica non poteva stabilirsi lí; però, per moderarne l'impatto, sono state messe due o tre norme di legge. Una di queste norme è che il diritto al voto, al voto locale, cioè alle elezioni comunali e regionali, viene concesso solo dopo quattro anni di residenza. Chi viene da un'altra provincia, fino al quarto anno compiuto di residenza, deve votare ancora nel suo paese di provenienza. Questa è l'unica legge che io conosca in Italia e che riguarda i cittadini italiani. Essa esige un periodo di radicamento e quindi una verifica in un certo senso anche della stabilità. Questa norma è stata un pochino modellata su una norma svizzera. In Svizzera è il Cantone, e teoricamente l'assemblea dei membri, che ad un certo punto decide. Oggi di fatto questo è un processo abbastanza burocratico; il Comune ad un certo punto decide se accettare un nuovo residente o no.
Nel nostro ordinamento locale esistono anche alcune altre norme. In particolare una prevede che nel pubblico impiego si può entrare solo se si conoscono entrambe le lingue, italiana e tedesca, ad un livello adeguato alle varie funzioni.
Anche questa è una norma in qualche modo filtro, che esige uno sforzo di adattamento, in questo caso, di adattamento linguistico più o meno alto, per chi vuole entrare nel pubblico impiego locale.
Queste norme insieme ad un avvenuto trasferimento di parte del potere centrale al potere locale, ha in effetti invertito il processo. Dalla fine degli anni '60 nella nostra provincia, la componente italiana, cioè la componente "immigrata", si è ridotta, non tantissimo, ma si è lentamente ridotta. Questo anche perché a volte gli "immigrati" in pensione, tornavano ai loro rispettivi paesi d'origine e perchè sostanzialmente non avveniva una nuova immigrazione, salvo forse un po' in alcuni settori tipo la scuola o la dirigenza statale.
Lo Stato stesso non faceva più una politica che spingeva all'immigrazione o comunque che l'incentivava; anzi viceversa faceva semmai una politica di scoraggiamento, mentre la componente sudtirolese sia di lingua tedesca che di lingua ladina, tendeva ad aumentare.
Ora la forza politica cui appartengo, ha criticato molte delle norme di contabilità etnica contenute nel nostro ordinamento. Infatti pretendono di fare giustizia tra le persone obbligandole ad intrupparsi in uno dei gruppi etnici previsti e a servirsi al loro sportello etnico in ragione della forza del rispettivo gruppo. Questo noi abbiamo criticato.
Invece non abbiamo mai contestato la norma della residenza quadriennale, perchè abbiamo in quel caso ritenuto, un po' come già detto, che effettivamente una comunitá minoritaria minacciata da erosione e da assimilazione, abbia un qualche diritto ad esigere un più alto radicamento da chi viene a stabilirsi in loco. Però voglio dire anche che dopo il quarto anno una persona questo diritto ce l'ha; una volta verificato questo radicamento non si può, non c'è scusa che tenga ad assicurare la residenza. Queste sono le uniche norme in tale senso che io conosca in Italia.
Abbiamo diritto al "numero chiuso"?
Ora se uno cercasse una traduzione burocratica di tutto questo, potrebbe dire: "va bene allora la scelta del numero chiuso o contingentamento". È il caso di alcuni paesi tipo l'Australia, gli USA, ecc. Sono paesi che hanno tradotto in qualche modo questa questione del rapporto, della capacità di assorbimento, o della capacità di diluizione, in norme. E le norme sono sempre molto severe e molto precise.
Sono contingenti che, almeno, alcuni paesi si scelgono. Ci sono dei paesi, anche numerosi, che prendono accordi bilaterali in cui si stabilisce che ogni anno possono immigrare, per esempio, tot persone dall'India, tot persone dalla Cina, tot persone da questo o quello stato africano. Più di cosí no. Altri stati, per es. l'Australia e, credo, anche la Nuova Zelanda, hanno invece dei filtri, diciamo, "qualitativi". Dicono: "Y".
A me sembra francamente, forse mi dovrò ricredere, perché c'è anche il problema di quanta tensione, di quanta tensione, di quanta violenza si ingenera, a me sembra che le nostre società, finché pretendono di poter andare liberamente ovunque e fare ovunque i propri affari, non hanno diritto di mettere chissà quali filtri. Io vedo che oggi noi, qualsiasi bianco con alle spalle uno stato relativamente prospero, forte e ricco, possiamo andare dove vogliamo. E allora, che diritto abbiamo noi di porre degli sbarramenti a coloro che vengono dall'emisfero più svantaggiato?
Autolimitazione e apertura
Credo a una politica di autolimitazione. Trovo abbastanza assurdo dire che se tutti vogliono l'automobile allora tutti abbiano l'automobile; o cose di questo genere. Credo all'autolimitazione dell'impatto umano verso la biosfera, a un'autolimitazione del proprio impatto demografico per non sovrappopolare eccessivamente la terra, e anche un'autolimitazione dell'indice di affollamento di certe parti della terra rispetto ad altre.
Anche rispetto a queste decisioni voglio dire di nuovo che non siamo noi del nord i più titolati a decidere. Infatti la nostra parte del mondo è quella, per un verso, a più alto impatto, quella che produce più danni, da tutti i punti di vista, anche se abbiamo poi una grande capacità di spedire ad altri le spese per questi danni. Per questo io penso che dal punto di vista dell'equità storica, non possa che esserci, da parte nostra, un'indicazione molto morbida.
Ciò non vuol dire accettare tutto. Però chi è sensibile a ragioni di giustizia, di equità, ecc. non può oggi, in un paese ricco, bianco, industrializzato del nord del mondo, accettare di costruire muri o propugnare politiche rigide anti-immigrazione.
Per quanto riguarda territori di minoranze, territori di comunità etniche particolari, ecc., a me sembra che si possa chiedere agli stati uno sforzo maggiore di tutela delle identità particolarmente minacciate. Mi sembra anche che questo non sia di facilissima attuazione. In realtà tutte le identità sono altrettanto degne. Noi a volte pensiamo che abbiano una particolare identità solo i sardi, i friulani, i sudtirolesi, i valdostani, ecc. Ma i napoletani o i milanesi metropolitani o gli anonimi padani, ecc., hanno pure loro un'identità. Forse meno minacciata di sparizione, ma altrettanto reale. Mi sembra anche che non sortirà grandissimi risultati l'affidare la difesa della propria identità, della propria capacità di sopravvivenza di identità, a misure proibizioniste.
La scelta della convivenza
Per l'esperienza avuta anche in Sudtirolo, credo che ci sia un qualcosa di molto arricchente in una compresenza di culture, di lingue, di identità e di esperienze diverse. Sicuramente non è mai particolarmente facile.
Non so quanto sia grande Venzone; un pochino me ne sono reso conto. Se un venzonese torna a casa dal Brasile con una moglie brasiliana, questo può essere anche una festa per tutti. Se venissero poi altri cento brasiliani, probabilmente nascerebbero problemi per un luogo come Venzone. E in questo senso i numeri hanno il loro peso.
Sicuramente molti popoli oggi hanno problemi di convivenza. Basta pensare all'Europa orientale dove stanno scoppiando conflitti in gran numero. Dobbiamo dire che all'origine della convivenza, ci deve essere una scelta volontaria, un'ospitalità, una scelta di accoglienza per i piccoli numeri. In piccoli numeri ci può essere. Ricordo che negli anni '50 veniva in Sudtirolo un gran numero di preti cecoslovacchi, che allora emigravano per varie ragioni, essenzialmente per ostilità allo stato totalitario, cacciati, o comunque perché era impossibile la loro vita in Cecoslovacchia. La nostra diocesi li ha accolti e li ha poi incardinati e riutilizzati. Ricordo anche che avevamo, sempre a proposito di preti, un certo numero di preti sloveni: c'era un vecchio legame tra Maribor in particolare e Bressanone. Era stata una scelta di ospitalità. Di nuovo però i numeri erano abbastanza piccoli. Posso dire che anche quando l'origine della convivenza plurietnica all'inizio non è volontaria, anzi è frutto di coercizione storica, come nella nostra regione o in altre parti del mondo, si può imparare a cercare in questo anche un grande arricchimento.
Quarant'anni fa nella nostra provincia di Bolzano, la maggioranza della popolazione avrebbe fatto volentieri a meno degli altri. La maggioranza dei sudtirolesi di lingua tedesca pensava che se gli italiani se ne andavano da dove erano venuti sarebbe stato un gran bene; anzi qualcuno pensava che se gli italiani se ne andavano da dove erano venuti sarebbe stato un gran bene; anzi qualcuno pensava che bisognava incoraggiarli ad andarsene. La maggioranza pensava cosí. E la maggioranza degli italiani pensava: "Se questi sudtirolesi vogliono rimanere tedeschi perché non se ne vanno oltre il Brennero?" C'era un sentimento e una pratica di non accettazione reciproca e un sentire la convivenza sostanzialmente come una condanna.
Certo, noi abbiamo adesso alle spalle 60, 70 anni di convivenza. Ci sono stati anche periodi di reciproca oppressione. In particolare di oppressione dei sudtirolesi da parte dello stato italiano ma anche viceversa, come nel periodo nazista quando molti sudtirolesi hanno affidato al nazismo una qualche vendetta.
Anche di recente il potere autonomistico sudtirolese ha compresso spesso la componente italiana. Però posso dire che è nata nel frattempo non solo un'accettazione rassegnata ma una reale volontà di convivenza. Oggi a molti mancherebbero gli altri se non ci fossero. Da noi ormai una componente della nostra identità, del nostro modo di vivere, della nostra vita di paese, ecc., è anche la presenza degli altri. Questa presenza in alcuni posti è maggioritaria, in altri è quasi trascurabile; non c'è uno schema unico, non c'è la chiave; può essere due terzi, un terzo; è quello che é.
Verso società plurietniche e pluriculturali
A me sembra che oggi sviluppare forme di cultura, di politica, di vita sociale, ecc., plurietniche e pluriculturali, sia una scelta difficile, per niente facile e scontata. Però credo che sia la risposta più civile, meno rassegnata e più ricca anche di prospettive positive fra le risposte che oggi in qualche modo possiamo cercare a questo proposito.
Le forme alternative a questa scelta sono, a parere mio, violente; tutte. Tutte le alternative sono o di esclusione violenta, o di separazione violenta o al limite di inclusione violenta, cioè di assimilazione, di sottomissione o qualcosa del genere.
Mi sembra, e con questo sono arrivato finalmente al termine, credo che valga la pena di tentare di esplorare i valori della convivenza. Anche se so che nella situazione attuale ci saranno turbamenti di equilibrio e che questo richiederà grandi sforzi per tutti: per noi e per gli immigrati.
Trascrizione, non rivista, di una conversione con il "Grop di studi Glesie locál"; Venzone - Friuli estate 1990
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28 Luglio, 2016
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Dal Brennero non passa più nessuno. Dopo l’incontro dei primi di maggio scorso tra il ministro dell’Interno italiano Angelino Alfano e quello austriaco Wolfgang Subotka, solo una manciata di profughi è entrata in Austria provenendo dall’Italia. Non è stato costruito fisicamente alcun muro (in buona sostanza, la minaccia di costruirne uno da parte austriaca, oltre che utile a fare un po’ di pressione sull’Italia, è servita a infarcire un po’ di slogan elettorali prima del secondo turno delle presidenziali).
Tuttavia i controlli da parte italiana sono aumentati. E basta farsi un giro lungo i binari della stazione di Bolzano, oltre che lungo il confine, per incrociare pattuglie di poliziotti e carabinieri italiani che presidiano le vie di accesso alla frontiera italo-austriaca, dopo che negli ultimi anni – neanche tanto velatamente – si era lasciato andare verso Nord la gran parte di coloro che approdavano in Sud-tirolo, non solo i siriani che fino a metà 2015 sbarcavano in Italia.
Così dal Brennero, effettivamente, non passa più nessuno. Chiunque arrivi in Italia, ci rimane, come ha scritto perfino il principale quotidiano del Tirolo, il Tiroler Tageszeitung. Ma quanto durerà questo stallo, con l’estate alle porte, prima che l’effetto imbuto diventi visibile?
La storia recente delle frontiere europee (sia quelle esterne, sia quelle interne) è piena di domande del genere. Ogni muro che viene innalzato (o semplicemente evocato) ha l’effetto di ridefinire i percorsi interni o ai margini del continente, senza dare una risposta all’altezza della sfida posta dall’esodo di massa dall’Africa o dal Medio Oriente.
Il concetto stesso di frontiera, in questi frangenti, sguscia via come una anguilla. Eppure – proprio come accade in Sud-tirolo – nuove linee di confine si sommano ad altre storiche.
Non solo quelle tra Stati nazionali, e quindi tra Italia e Austria. Ma anche quelle tra la comunità italiana e la comunità tedesca interne allo stesso Alto Adige/Sudtirolo.
Alex Langer, politico e pensatore illuminato, proprio a partire dalle sue origini sudtirolesi si pose costantemente il problema di saltare i muri e costruire gruppi misti che sgretolassero la compattezza etnica di gruppi, che rischiavano di rimanere contrapposti. Oggi che la stessa autonomia sudtirolese è entrata in una nuova fase, quella lezione sull’oltrepassare le frontiere e guardare cosa c’è dall’altra parte rimane straordinariamente importante anche in relazione alla questione del Brennero.
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Oggi questo lavoro “misto” e transnazionale è svolto sul piano politico quasi unicamente dai Verdi, qui – sulla scia del lascito di Langer – più attivi che altrove. I Verdi, che contano tre consiglieri nel consiglio della Provincia autonoma, due tedeschi e un italiano, sono in costante contatto con i Verdi austriaci di Van der Bellen (eletto presidente federale contro il candidato dell’estrema destra xenofoba) e con i Verdi bavaresi (ed è proprio la Baviera, forse, il vero modello a cui guarda l’autonomia sudtirolese).
Anche per questo i Verdi bolzanini sono stati i primi a rendersi conto che, lungi dall’essere effettivamente costruito, il muro è stato solo un fantasma agitato dall’Austria nelle relazioni con l’Italia.
Nell’Europa che alza muri ai propri margini, tanto quanto lungo i vecchi solchi che separano gli Stati nazionali, intensificare una somma di attività politiche, culturali, sociali transfrontaliere è l’unico modo non solo per gestire i momenti di crisi, ma anche per uscire dalle logiche dell’emergenza e delle reciproche chiusure nazionali che spesso governano le politiche di accoglienza o di gestione del transito dei profughi.
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Nella stazione di Bolzano, i semplici cittadini si sono mobilitati nel prestare soccorso ai profughi prima delle istituzioni e delle stesse associazioni. Ma non tutto può essere affidato al volontarismo.
Come scriveva Langer:
«Estrema importanza possono avere persone, gruppi, istituzioni che si collochino consapevolmente ai confini tra le comunità conviventi e coltivino in tutti i modi la conoscenza, il dialogo, la cooperazione».
Tale modello andrebbe esteso anche ad altre linee di frontiera che oggi tagliano l’Europa e il Mediterraneo.
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anche su Minima&Moralia e presente in Alexander Langer, Alessandro Leogrande, Dialogo sull’Albania, a cura di Giovanni Accardo, prefazione di Goffedo Fofi; Edizioni Alpha Beta Verlag, 2019
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