DARIO GENTILI
insegna Filosofia morale all'Università Roma Tre. Si occupa di filosofia morale e di filosofia politica, con particolare attenzione alla filosofia italiana. La sua ricerca filosofica incrocia inoltre questioni di architettura e di urbanistica. Tra le sue pubblicazioni: Crisi come arte di governo (2018); Italian Theory. Dall’operaismo alla biopolitica (2012); Topografie politiche. Spazio urbano, cittadinanza, confini in Walter Benjamin e Jacques Derrida (2009); Il tempo della storia. Le tesi “Sul concetto di storia” di Walter Benjamin (2002, 2019).
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Seguono i testi: DISBOSCAMENTI. DALLA RADURA AL LIBERO MERCATO, in Lettera Internazionale, 2012 e CONFINI, FRONTIERE, MURI, in Lettera internazionale, 2008.
DISBOSCAMENTI
DALLA RADURA AL LIBERO MERCATO
Dario Gentili
in Lettera Internazionale n.113, 2012
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Nell’immaginario collettivo, termini quali “bosco”, “foresta”, “selva” suscitano sentimenti e impressioni che possono essere tra loro anche molto contrastanti. Se Dante “smarrisce la dritta via” nella “selva oscura” e Cappuccetto Rosso incontra nel bosco il lupo che vuole divorarla, c’è una letteratura altrettanto ampia e varia che ammanta boschi e foreste d’incanto e ne canta la vita bucolica che vi trascorre in sintonia con la natura.
Certo, in diversi casi il valore simbolico del bosco deriva dal giudizio che si esprime sulla vita urbana: il bosco diventa allora “rifugio” e “ritorno alla natura” rispetto alla dimensione innaturale della città da cui si fugge oppure luogo in cui l’uomo rischia di perdere la sua umanità e civiltà per tornare allo stato barbaro e selvaggio. In filosofia, per esempio, l’immaginario bosco-foresta-selva descrive una condizione originaria – si pensi alla ingens sylva popolata dai giganti in Vico o allo stato di natura dell’homo homini lupo in Hobbes – dominata dalla violenza e dall’assenza di ordine e legge: precedente o al di fuori della città e del suo governo. Insomma, la configurazione del rapporto tra bosco e città dipende dalla filosofia della storia che vi è presupposta: una è orientata alla decadenza da una condizione primordiale ideale, “naturale”, il cui archetipo per eccellenza è l’Eden biblico; l’altra – che definirei “illuminista” – delinea un progressivo perfezionamento e una progressiva emancipazione dalla originaria condizione di minorità dell’uomo nei confronti della natura, di cui è succube come qualsiasi altro animale. Lungo le direttrici di queste due filosofie della storia, la concezione della natura si polarizza in una visione “benigna” e una “maligna”. E non solo: il medesimo giudizio antitetico ricade anche sulla valutazione dell’animalità, compresa quella dell’uomo. Premesso ciò, mio tentativo sarà quello di individuare un rapporto tra bosco e città (civiltà) non contrassegnato dalle contrapposizioni derivanti dall’assunzione dell’una o dell’altra filosofia della storia, ma da una certa continuità, che potrebbe risultare da un’analisi di tipo genealogico. Prima di tutto, però, c’è bisogno di qualche specificazione di natura terminologica. Infatti, con quale accezione bisogna considerare il termine “bosco”, come vanno definiti e distinti i termini che compongono la costellazione bosco-foresta-selva?
Lucus e Nemo
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La distinzione più marcata la possiamo trarre dal commento all’Eneide del cosiddetto Servio danielino, il quale distingue tra il termine lucus, che indica un insieme di alberi cum religione, il termine nemo, a cui corrisponde una multitudo arborum “ordinata” dall’uomo, e, infine, silva, secondo cui la multitudo arborum è diffusa et inculta. Se per silva s’intende chiaramente la “selva” o la “foresta” selvaggia, oscura, intricata, misteriosa e pericolosa – quella, per intenderci, di Dante e delle fiabe –, la distinzione tra lucus e nemo appare già più problematica. Perché a tale distinzione non corrisponde l’associazione tra selvaggio e divino e quella tra ordinato e umano, da cui risulta poi la contrapposizione tra selvaggio-divino e ordinato-umano. Certo, sia nel mondo romano che in quello greco, diversi sono i miti dove si narra di boschi o di altri luoghi naturali che sono dimora di divinità e, pertanto, sono proibiti all’uomo – e spesso si tratta di luoghi caratterizzati dalla loro pericolosità e inaccessibilità. Si pensi a come il pantheon greco e quello romano siano entrambi divisi tra divinità “naturali” – più antiche – e divinità “urbane”, che nel corso del tempo finiscono per prevalere sulle prime; si pensi, in Grecia, ad Artemide (dea della caccia e dei boschi) e a Demetra (dea dell’agricoltura e del matrimonio) e, a Roma, alle – più o meno – corrispettive Diana e Cerere. È al nemo che fa riferimento il culto di Diana Nemorensis, che si pensava dimorasse nel bosco presso il lago di Nemi. Eppure, è a partire da questa figura – e da quella del “re del bosco” suo sposo – che James George Frazer ha sviluppato l’indagine antropologica di Il ramo d’oro, che tende proprio a individuare un nesso tra questo culto legato al bosco e agli alberi e l’istituzione politica della regalità. Insomma, la “sacralità” del bosco che caratterizza il lucus non sembra derivare direttamente dalla contrapposizione all’“ordine e governo” umani che definiscono il nemo. Contrapposizione, questa, che pare invece più adatta ad articolare i due termini che in greco antico significano bosco: àlsos e hyle. Àlsos, infatti, significa “bosco sacro”, mentre hyle “foresta selvaggia, selva”. Hyle, per metonimia, ha poi assunto il significato di “legno”, del “materiale” di cui è fatta la foresta, e ha finito per assumere il significato filosofico di “materia”: la materia amorfa a cui l’eidos, l’idea, dà forma. L’assunzione del termine hyle nel lessico filosofico è espressione sintomatica del cambiamento nella concezione della natura selvaggia che si è consumato nella civiltà greca nel corso della sua “urbanizzazione”: l’assenza di forma della hyle, da dimensione “mostruosa” e pericolosa, è convertita in disponibilità alla messa in forma da parte del pensiero umano, che ha ormai trovato la sua dimora più propria nella polis.
Da questa breve analisi terminologica, abbiamo finora compreso che la distinzione romana tra lucus e nemo non ricalca quella greca tra àlsos e hyle. Se, infatti, lucus e àlsos possono significare entrambi “bosco sacro”, nemo invece non indica affatto, come hyle, la natura selvaggia e amorfa; anzi, la sua multitudo arborum è ordinata e disciplinata dall’uomo. Non è dunque per contrapposizione che si può accedere alla sacralità del lucus e al significato di “bosco sacro”. L’etimologia può aprire un varco nell’intrico delle diverse accezioni di bosco. Lucus deriva da lux, luce. Questa etimologia non deve tuttavia trarre in inganno: qui non si tratta affatto dell’equivalenza tra la luce e la divinità. È piuttosto un approccio
topografico che può condurre a definire più propriamente il lucus. Lucus, infatti, significa “radura”: il luogo del bosco dove arriva la luce del sole. Questa definizione potrebbe meravigliare chi ricorda l’espressione lucus a non lucendo, una delle “etimologiae e contrariis” proposte da Varrone in De lingua latina, che significa alla lettera: “lucus deriva da ciò che non è illuminato”. Le ricerche etimologiche successive hanno invece dimostrato che, derivando lucus da lux, sarebbe corretto il contrario: lucus a lucendo. Eppure, nonostante sia errata, l’etimologia antica di lucus suggerisce qualcosa di vero: ogni radura si apre pur sempre nel fitto del bosco; è l’oscurità che la circonda a permettere alla luce d’illuminare quello spazio che si sottrae all’intrico e all’impenetrabilità del bosco. Insomma, radura e bosco – vuoto e pieno, apertura e nascondimento – sono strettamente connessi; lucus e nemo sono tutt’altro che opposti, ma descrivono invece una medesima topografia, un medesimo spazio[1]. Tale topografia ci riporta indietro a epoche remote, pre-urbane, di cui Frazer così descrive il paesaggio: «agli albori della storia l’Europa era coperta di una immensa foresta primigenia, dove le sparse radure devono essere sembrate delle isolette in un oceano di verde»[2].
Dando credito all’immagine di Frazer, la scena originaria della civiltà europea descriveva una foresta, immensa e fitta, interrotta da radure: l’alternanza topografica che si sarebbe prodotta in seguito tra città e natura avrebbe il suo precedente in quella tra radura e foresta – un’alternanza tutta interna alla dimensione naturale. Per tornare alla nostra questione, come e dove collocare il sacro in questo paesaggio primordiale? La proposta di Frazer è la seguente: «Da un esame delle parole teutoniche significanti “tempio” il Grimm ha dimostrato che probabilmente tra i Germani i più antichi santuari non erano che boschi naturali. […] Tra i Celti, il culto delle querce dei Druidi è familiare a ognuno, e la loro antica parola per santuario sembra identica nell’origine e nel significato al latino nemus, bosco o radura nel bosco, che ancora sopravvive nel nome di Nemi»[3]. Si potrebbe dunque sostenere che il lucus è la radura che si apre in un nemus accessibile all’uomo. Anzi, è proprio la presenza della radura a rendere un determinato bosco accessibile, non solo in senso materiale: i sacrifici che avevano luogo nel lucus, infatti, avevano la funzione di propiziarsi gli dei, che custodivano il bosco o vi dimoravano, e rendere pertanto disponibile la natura all’utilizzo da parte dell’uomo prima con la caccia e poi con il pascolo e l’agricoltura – la hyle diventa, da foresta selvaggia, legna e materia da utilizzare.
Le terribili punizioni in cui incorreva chi osava profanare il bosco sacro – anche soltanto strappando un ramo di un albero, come ci ricorda Frazer – restituiscono solo in modo superficiale il senso della sacralità del bosco. Che siano o meno attestate storicamente, queste punizioni spesso raccapriccianti intendevano piuttosto scoraggiare un qualsiasi sfruttamento del bosco che non fosse veicolato dal rito: il rito, infatti, comportava una prima forma di ordinamento economico-giuridico dei boschi. Illuminante è a tal proposito l’interpretazione che Georges Dumézil fornisce della festa romana che deriva il suo nome proprio da lucus, la festa dei Lucaria: «anche se riconosciuti proprietà di un dio determinato, i boschi sacri erano tuttavia sotto certe condizioni accessibili all’azione profana, allo sfruttamento economico. I censori concedevano quelli che appartenevano allo stato a degli appaltatori che, osservando rigide precauzioni religiose, ne estraevano del legname; il danaro così ricavato, che aveva in verità una destinazione religiosa, portava il nome di lucar»[4]. Inoltre, Dumézil riporta da Festo che il verbo conlucare significava “riempire il luogo di luce tagliando gli alberi raso terra”. Queste ulteriori precisazioni e informazioni (stavolta del tutto storiche) ci consentono ormai di poter definire il significato dei termini lucus e nemo e il loro rapporto. In origine, il lucus è la radura dove si raccoglievano gli uomini della foresta per trovare rifugio e qui costituivano le prime forme organizzate di comunità; nel tempo, la radura è divenuta il luogo dove la comunità celebrava i suoi riti religiosi per ottenere la protezione degli dei e propiziarsi il loro favore per disboscare i terreni circostanti e sfruttarli per il suo sostentamento – l’insediamento diventa così stanziale.
Il lucus – la radura naturale in cui ha sede il primo insediamento – diventa allora, anche in memoria della fondazione della comunità, il “luogo sacro” dove è posto l’altare per i sacrifici e in seguito il tempio; mentre la radura che sorge dal disboscamento è il nemo: campo sfruttato per il pascolo, il legname, l’agricoltura – e per ulteriori insediamenti.
Insomma, dovrebbe essere ormai chiaro come dalla dialettica tra lucus e nemo – tra natura sacra da tutelare e natura profana da sfruttare e conquistare – sorga la città. Lo suggerisce lo stesso Dumézil: «All’epoca in cui sono stati redatti i nostri testi, i disboscamenti avevano ormai solo il fine di aprire nuovi campi, di estendere la superficie coltivabile a vantaggio del podere che l’amministrava. Ma nei tempi più antichi, bisognava dare spazio non solo alle piante, ma anche agli uomini: l’insediamento nel Lazio ha sicuramente avuto luogo in gran parte mediante disboscamento. Non dimenticati, ma ormai ridotti, nei secoli di Catone, di Varrone, al rango di feste rurali ordinarie, i Lucaria dovevano aver avuto tutt’altro rilievo nei primi secoli di Roma»[5].
La radura del bosco e la radura della città
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Il sacro non è soltanto e semplicemente individuabile in un oggetto naturale, in questo o quell’albero: l’albero sacro, infatti, è tale perché si staglia chiaramente e distintamente nella radura, al di fuori del fitto della foresta. Sacra è piuttosto la radura del bosco, non in se stessa, in quanto luogo determinato, ma perché in rapporto con la natura selvaggia. Se tale rapporto è in origine tutto interno alla dimensione naturale, diventerà in seguito “governabile” dall’uomo. Questa è la funzione fondamentale che svolge il rito. L’ha intuito genialmente Ludwig Wittgenstein, quando, sollecitato dalla lettura de Il ramo d’oro di Frazer, si è avventurato nei territori, apparentemente lontani dalla sua ricerca filosofica, dell’antropologia: «Non dev’essere stata una ragione da poco, anzi non può essere stata neppure una ragione, quella per cui certe razze umane hanno adorato la quercia, ma semplicemente il fatto che quelle razze e la quercia erano unite in una comunità di vita, e perciò si trovavano vicine non per scelta, ma per essere cresciute insieme […]. Si potrebbe dire che non la loro unione (di quercia e di uomo) ha dato il pretesto per questi riti, ma in un certo senso la loro separazione»[6]. La ritualità attesta l’avvenuta “separazione” dell’uomo e delle sue creazioni artificiali – dei prodotti della sua “tecnica”, sia questa agricola, artistica, architettonica o politica – dalla natura selvaggia. Attraverso il rito, l’uomo si sottrae all’unità con la natura per poterla governare e gestire in base ai suoi scopi e a suo vantaggio, anche economico. E tuttavia, quando la separazione tra naturale e umano – a cui il rito assicurava comunque la relazione – si configurerà progressivamente nella contrapposizione tra natura e città, non si perderà affatto la topografia del rapporto tra radura e foresta, tra aperto e nascosto, tra luce e oscurità. Non sono forse radure, infatti, l’agorà della polis e il foro romano, che configurano uno spazio aperto rispetto all’intrico delle strade e delle abitazioni circostanti? Anche nella città antica lo spazio della comunità, lo spazio della politica e del mercato, è libero e aperto: è una radura – attenzione, non una piazza perimetrata da edifici come lo sarà successivamente, ma un vero e proprio spiazzo amorfo. Il tempio stesso ricalca la topografia radura-bosco, con le colonne a rappresentare gli alberi che circondano lo spazio vuoto dove è collocata la statua del dio, in analogia con la radura originaria, al cui interno c’era l’albero sacro che fungeva da altare o da ara sacrificale. Ma le analogie non finiscono qui. La medesima topografia, infatti, è riscontrabile nel Palazzo di Cnosso, la più importante testimonianza della civiltà minoica, come si può evincere dall’interpretazione dell’architetto spagnolo Fernando Espuelas: «L’organizzazione spaziale, che si potrebbe definire organica, risponde ad un processo centrifugo. Si parte dal patio come elemento originario, e attorno si dispongono le diverse parti secondo necessità dimensionali, di localizzazione e salubrità (aerazione e soleggiamento) di ogni locale. […] Possiamo leggere nel grande patio la traslazione del primitivo santuario naturale montano. Anche qui si tratta di un ampio spazio vuoto a cielo aperto, dove l’aria fluisce, il sole brilla e volano gli uccelli. Tutti questi elementi naturali sono presenti, ma imprigionati nell’inestricabile costruzione […] Significativamente, la colonna ha sostituito l’albero come simbolo della divinità»[7]. Non è un caso che al palazzo di Cnosso e alla sua topografia siano connessi il tema del labirinto – un inestricabile sistema di cunicoli con al centro uno spazio vuoto – e il mito del Minotauro, che dimorava al centro del labirinto: metà uomo e metà toro, mostro che rappresenta l’unità non separata di natura selvaggia e umano, che, perché tale, finirà per essere ucciso da Teseo.
Che cosa ci suggeriscono tutti questi esempi topografici tratti da una forma civiltà già urbana? Che cosa si conserva in essi della sacralità inerente al rapporto tra la radura del bosco e la natura selvaggia e inquietante che la circondava? Si potrebbe rispondere così: sacro non è questa o quella sua rappresentazione, ciò che appare, ma lo spazio che consente a qualcosa di apparire mediante la separazione dall’oscurità, dall’indistinguibilità e dall’indistinzione – in quanto apparenza, questo qualcosa è in relazione all’uomo, alla sua percezione, alla sua conoscenza e, infine, alla sua stessa capacità di ordinamento. È da questo rapporto di matrice “illuminista” che scaturisce, infatti, qualsivoglia forma di ordinamento autenticamente umano (politico, economico, urbanistico). Il Minotauro, insomma, deve morire.
Sulla scorta dell’interpretazione proposta finora, non dovrebbe sorprendere che una delle riflessioni più radicali sulla filosofia e sulla verità, quella che Martin Heidegger ha elaborato in seguito alla cosiddetta “svolta” del suo pensiero, abbia assunto come compito della filosofia quello di pensare la Lichtung, la “radura”: «Noi chiamiamo questa apertura, che sola concede la possibilità di lasciar-apparire e mostrare, la Lichtung. […] La radura nella foresta (Waldlichtung) è esperita nel contrasto con la foresta là dove è fitta […]. Il sostantivo Lichtung, radura, rinvia al verbo lichten, diradare. L’aggettivo licht è la stessa parola che leicht, facile. Diradare qualcosa significa: rendere qualcosa facile, aperto e libero, per esempio liberare la foresta in un luogo dagli alberi. Lo spazio libero che così sorge è la radura, Lichtung»[8]. Non solo la parola tedesca per “radura”, Lichtung, sembra rimandare alla luce (Licht) e al chiarore, ma altrettanto i corrispettivi clarière in francese, claro in spagnolo e chiaro in italiano arcaico. Eppure, Heidegger rifiuta la derivazione etimologica di Lichtung da “luce”. Che l’etimologia che propone sia attendibile o meno, è utile soffermarsi sui motivi “filosofici” che lo hanno indotto a mettere in discussione l’etimologia che sembrerebbe più ovvia; motivi riconducibili a quanto già accennavo in precedenza: il sacro, il divino, l’essere, la verità non sono originariamente da identificare direttamente con la luce, perché in tal modo si sarebbe indotti a considerare ciò che la luce pone in essere – l’apparenza – come la manifestazione del sacro e del divino. Invece, la Lichtung, secondo Heidegger, è più originaria della luce stessa: è l’aprirsi e il diradarsi della radura che permette alla luce di diffondersi e d’illuminare chi e cosa in questo spazio “aperto e libero” ha luogo. Così, infatti, prosegue la riflessione heideggeriana: «Das Lichte, ciò che è facile nel senso di libero e aperto, non ha né linguisticamente né quanto alla cosa di cui si parla niente in comune con l’aggettivo licht, che significa hell: chiaro, luminoso. Questo è da tener presente per la differenza tra Lichtung, radura, e Licht, luce. Nondimeno resta la possibilità di una connessione oggettiva tra di esse. La luce può appunto cadere nella radura, nel suo aperto, e in essa lasciar giocare la luminosità con l’oscurità. Ma giammai è la luce che crea originariamente la radura; invece è quella, la luce, che presuppone questa, la radura. […] La Lichtung, la radura, è l’Aperto per tutto ciò che è presente e tutto ciò che è assente»[9]. Sacro è dunque lo spazio aperto e libero – lo spazio pubblico, si potrebbe anche dire – e non ciò che, di epoca in epoca e di volta in volta, vi appare.Anzi, più questo spazio è libero e aperto – più è pubblico e, quindi, meno è occupato da idoli di ogni genere –, più la comunità è in rapporto con il sacro e ha, pertanto, la capacità di ordinarsi e governarsi. È la tutela della radura del bosco sacro – della sua apertura e libertà – il primo atto con cui le comunità arcaiche hanno cominciato a governare se stesse e ad addomesticare la natura selvaggia.
Mi potrei fermare qui; ma tralascerei un aspetto importante che è emerso e che, seppur brevemente, bisognerebbe sviluppare in conclusione. Abbiamo visto come la sacralizzazione del bosco sacro e della sua radura siano stati all’origine dello sviluppo della civiltà. Il mito del Minotauro che dimorava nello spazio vuoto al centro del labirinto raccontava della fine dei tempi preistorici, di cui il Minotauro incarnava la traccia: doveva morire perché non ci fosse più nessuna traccia dell’indistinzione tra animale e umano e perché la luce potesse penetrare l’oscurità e rendere così le forme distinguibili. La liberazione e l’apertura dello spazio corrispondono alla liberazione dell’uomo dalla natura selvaggia; da allora in poi, infatti, la liberazione in quanto rimozione e superamento di ogni ostacolo ha finito per definire la prassi più autenticamente umana. Il disboscamento della selva e della foresta – abbiamo appreso da Dumézil – era celebrato nelle feste romane e rappresentava una forma di civilizzazione. Il suo scopo era anche, se non soprattutto, economico. E se avessimo finito nel tempo per sovrapporre e infine confondere la radura “naturale” del bosco sacro con quella “artificiale” prodotta dall’uomo? E se stessimo confondendo lo spazio aperto e libero della Lichtung, che – avverte Heidegger – “si dà”, con uno spazio la cui apertura e libertà dipende dal disboscare: dallo sgomberare e dal conquistare? E se il prototipo della libertà non fosse più l’agorà della politica – in quanto la politica, almeno quella istituzionale, ha ormai abbandonato la luminosità della piazza per chiudersi nelle stanze buie del Palazzo – ma il libero mercato dell’economia, che si espande al globo intero? E se fosse proprio il libero mercato la manifestazione di quanto resta oggi del sacro? Lo suggerisce Walter Benjamin descrivendo il peregrinare dell’uomo di oggi – il flâneur – nella foresta labirintica della metropoli, che è senza scopo perché la meta è ovunque: «Il labirinto è la via giusta per chi arriverà comunque in tempo alla meta. Questa meta per il flâneur è il mercato»[10].
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[1] Cfr. G. Ragone, Dentro l’àlsos. Economia e tutela del bosco sacro nell’antichità classica, in C. Albore Livadie e F. Ortolani (a cura di), Il sistema uomo-ambiente tra passato e presente, Edipuglia, S.Spirito (Bari), 1998, pp. 11-25.
[2] J.G. Frazer, Il ramo d’oro. Studio sulla magia e la religione (1922), I v., Bollati Boringhieri, Torino 1973, p. 175.
[3] Ivi, p. 176.
[4] G. Dumézil, Feste romane (1975), Il Melangolo, Genova 1989, pp. 46-47.
[5] Ivi, pp. 53-54.
[6] L. Wittgenstein, Note sul “Ramo d’oro” di Frazer (1967), Adelphi, Milano 1986, p. 35.
[7] F. Espuelas, Il Vuoto. Riflessioni sullo spazio in architettura (1999), Marinotti, Milano 2009, pp. 124 e 128-129.
[8] M. Heidegger, La fine della filosofia e il compito del pensiero, in Tempo ed essere (1969), Guida, Napoli 1987, p. 179.
[9] Ibidem.
[10] W. Benjamin, I «passages» di Parigi, in Opere complete, v. IX, Einaudi, Torino 2000, p. 368.
CONFINI, FRONTIERE, MURI
Dario Gentili
in Lettera Internazionale 29 Dicembre, 2008
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Nel discorso di Berlino, Barack Obama si è rivolto al mondo avvertendo che «il pericolo più grave fra tutti è quello di permettere che nuovi muri ci dividano. Muri fra gli alleati delle due sponde dell’Atlantico non potranno mai reggere, così come non reggeranno muri che dividano i paesi che hanno tutto da quelli che non hanno niente. Muri fra razze e tribù, fra nativi di uno Stato e immigrati, muri che dividano cristiani, musulmani ed ebrei. Sono questi i muri che oggi ci si chiede di abbattere». In seguito all’abbattimento liberatorio del muro di Berlino che ha segnato un’intera epoca, ovunque nel mondo sono stati eretti nuovi muri, che – come ricorda lo stesso Obama – sembrano rispondere ogni volta a un diverso criterio di distinzione. Nel mondo post-bipolare vi sono più muri che nel mondo diviso dal muro di Berlino: può sembrare un paradosso nell’epoca della globalizzazione.
Rete, non-luoghi, modernità liquida, de-territorializzazione sono alcuni dei termini che hanno accompagnato l’affermarsi, a livello sociologico e non solo, di una topografia della globalizzazione, teorizzata come un superamento della topografia del confine, che ha caratterizzato la modernità e la sua creazione politica per antonomasia: lo Stato. Un mondo senza confini, s-confinato, è il tratto comune alle diverse espressioni che vogliono descrivere la topografia della globalizzazione. Tuttavia, allo s-confinamento immateriale della tecnologia telematica e dell’economia finanziaria fa da contraltare una rinnovata materialità del confine: il muro. Ma si tratta di confine in senso proprio? Non bisogna piuttosto evidenziare che, dove i muri corrispondono ai confini statuali, questi sono in realtà preesistenti e altrove, invece, non demarcano affatto confini tra Stati? Insomma, la pietrificazione e la cementificazione dei confini statuali può non rappresentare un rafforzamento dell’idea di Stato-nazione e probabilmente non spiega affatto la ragion d’essere di questi muri: il rapporto con il confine, con il suo senso politico-culturale, non è essenziale.
Finis e limes
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Un’interpretazione del muro nell’epoca della globalizzazione non può prescindere dalla chiarificazione del significato della parola confine. Con-fine deriva dal latino finis, che, come del resto il greco oros, risale etimologicamente al “solco”: fig-snis significa “tagliare, scavare un solco sul terreno”. Ecco che già dall’etimo si ricavano i due elementi discriminanti del con-fine: il radicamento terrestre e la linea. L’importanza politico-culturale della pratica di “tracciare il solco” nel mondo latino viene dalla nota analisi del termine rex fornita da Benveniste: il rexè colui che traccia la linea, colui che è incaricato di regere fines, di “tracciare i confini in linea retta”. Bisogna fare attenzione a non identificare la figura del rex esclusivamente con il re, con l’autorità politica; il rex è prima di tutto un’autorità religiosa e morale, indica la via da seguire, la via retta, istituisce la “regola” della comunità, la sua rettitudine. Al “regolamento” della comunità deve corrispondere una terra da poter “misurare” nello spazio (spatium deriva dal greco stadion, un’unità di misura), per sottrarla al caos e farla corrispondere al cosmo. Il finis ha, perciò, una consistenza sacra e simbolica piuttosto che materiale: l’autorità del rex e del potere politico che ne deriva consiste, dunque, nel “tenere la linea”; e più la linea è dritta, più la sua autorità è fondata. Dovrebbe essere chiaro che non è di confini di tipo statuale che si sta parlando; è per questo motivo che una civiltà come quella romana, che conferisce un’importanza tale al confine da divinizzarlo (il dio Terminus), può farsi impero. Roma finisce dove finisce il mondo: urbs è orbis.
Il resto della terra, ciò che è al di là del finis, è disordine e dismisura; affinché la distinzione tra dentro e fuori sia inequivocabile, la linea deve essere retta: una linea incerta o spezzata può essere fonte di contaminazione e di confusione. E, tuttavia, una potenza che vuole espandersi per diventare imperiale deve s-confinare; per avanzare deve entrare in rapporto con il disordine della natura incolta e delle popolazioni nomadi senza un territorio definibile.
Al finis è complementare il limes. Limes che deriva appunto da limus – “trasversale, obliquo” –, dalla radice lei: “piegare”. Mentre il finis descrive una linea, il limes rappresenta una zona, in cui tra interno ed esterno e tra ordine e disordine prevale la continuità e il contatto. Si potrebbe obiettare che il limes più celebre del mondo romano, quello di Adriano in Britannia, è una muraglia di natura difensiva. Eppure, gli studiosi di storia romana concordano non solo nel sottolineare la permeabilità e la provvisorietà del vallo di Adriano (fu costruito infatti un altro vallo un centinaio di chilometri più a Nord), ma anche sul fatto che questo non rappresenta affatto, come spesso è denominato, il “confine” settentrionale dell’impero. Lo evidenzia chiaramente Aldo Schiavone: impero e confine sono due concetti alternativi; l’impero è s-confinato, nessuna potenza concorrente lo limita dall’esterno. Il limes è una strada militare fortificata (uno dei significati di limes è proprio “strada”), che avanza nel barbaricum e si arresta solo a fini strategici e di organizzazione interna, come è il caso del vallo di Adriano, ma non demarca affatto un confine. Sarebbe opportuno, pertanto, tradurre limes con
frontiera.
Nonostante la gran parte delle lingue moderne abbiano due termini distinti per indicare il confine, raramente la distinzione è tanto netta come in latino; finis e limes, anche soltanto a livello topografico, hanno significati sostanzialmente diversi: linea e zona. Si pensi, invece, all’italiano – ma lo stesso discorso può valere anche per altre lingue – e alla confusione tra confine e frontiera, che sono usati ormai come sinonimi; o meglio: il significato di frontiera è andato progressivamente a coincidere con quello di confine. Tale ridursi della zona alla linea è un fenomeno moderno e corrisponde all’affermarsi della forma politica dello Stato. È infatti con la nascita dello Stato moderno in Europa, in seguito alla pace di Westfalia (1648), che alla linearità del finis latino si aggiunge il “con” della sua condivisione e sorge il “con-fine” statuale. Il confine è, pertanto, una creazione tipicamente moderna. Perché ci sia confine, c’è bisogno che siano almeno due gli ordini politici che si riconoscono la sovranità su un dato territorio. Se l’impero ha ai propri margini frontiere, lo Stato ha confini.
In epoca moderna l’ambivalenza latina di fines e limes, sia sul piano linguistico che politico-culturale, si è perduta a vantaggio del confine. In inglese, lingua marittima e non continentale, invece, la distinzione tra bound e frontier rimane netta, in virtù soprattutto dell’esperienza americana. Nello stesso periodo in cui in Europa si afferma la topografia del confine, dall’altra parte dell’oceano la topografia della frontiera ritrova gli spazi s-confinati nel West degli Stati Uniti in via di espansione.
La frontiera americana
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Frederick Jackson Turner è il più noto storico – e apologeta – della frontiera americana. Il suo The Frontier in American History del 1920 è sì utile a ricostruire la storia della “conquista del West”, ma è fondamentale per comprendere lo spirito della frontiera americana e come questa abbia segnato indelebilmente l’immaginario di un’intera nazione, fino a oggi: non soltanto Obama è accreditato dai politologi americani di poter aggiornare la “nuova frontiera” di Kennedy, ma la sua elezione, l’elezione del primo Presidente afroamericano degli Stati Uniti, rappresenta essa stessa un’espressione dell’idea americana di frontiera e della sua capacità di slanciarsi idealmente oltre il confine razziale, che pure è ben radicato nella società.
Nel definire la frontiera americana, Turner ripropone la distinzione rispetto al confine, che caratterizzava all’epoca la topografia europea: «La frontiera americana si distingue nettamente da quella europea, che è una linea di confine fortificata che corre attraverso terre densamente abitate. La cosa più significativa della frontiera americana è che è posta proprio al limite dei territori aperti all’espansione e alla conquista»[1]. La frontiera americana, dunque, non è lineare come il confine ed è mobile, protesa costantemente alla conquista; altri due elementi, che Turner evidenzia, concorrono in modo altrettanto decisivo a individuarne la peculiarità: «In quest’avanzata, la frontiera è la cresta, la lama acuta dell’onda, il punto d’incontro tra barbarie e civiltà»[2]. Da un verso, la frontiera americana, come il limes romano, è a contatto con il barbaricum, la cui conquista è anche un’opera di civilizzazione, che presuppone una differenza qualitativa tra una parte e l’altra della frontiera; dall’altro verso, la metaforica della frontiera è marittima piuttosto che terrestre. Le sconfinate praterie del West sono il Mediterraneo delle origini della civiltà europea: «Ciò che il Mediterraneo rappresentava per i Greci, perché recideva i legami della consuetudine, offriva nuove esperienze e suscitava istituzioni e attività, questo, e qualcosa di più, ha rappresentato direttamente per gli Stati Uniti, e più remotamente per le nazioni d’Europa, la frontiera nel suo avanzare e nel suo conseguente restringersi»[3]. Il mare rappresenta l’elemento opposto della terra: è s-confinato e s-misurato. È, insieme al deserto della Terra Promessa a esso affine, l’altra faccia dell’Occidente, l’alternativa sempre possibile rispetto al radicamento sulla terra: guerra e viaggio, Iliade e Odissea.
In Moby Dick, il capolavoro di Melville, la frontiera americana trova il suo elemento originario: il mare. Se Turner descrive la frontiera del West usando immagini desunte dal movimento e dalla fluidità del mare, Melville ritrova la “prateria” e il suo spirito addirittura sulla fronte del re delle balene, il capodoglio: «Credo che la sua larga fronte sia soffusa come d’una placidezza di prateria, nata da una filosofica indifferenza verso la morte»[4].
Non si tratta soltanto di analogie letterarie. Per Turner, il motore propulsore della frontiera e del suo avanzare verso il West era di natura economica, i commercianti ne erano l’avanguardia; e Moby Dick – insieme ovviamente ad altri aspetti – rappresenta esemplarmente lo spirito del commercio. Quel commercio che necessita appunto di spazi sconfinati. E di essere fine a se stesso, senza altro principio se non il profitto. Aver tradito tale principio elementare è la causa del non ritorno in patria della baleniera, di un nostos interrotto, di un’Odissea senza approdo a Itaca-Nantucket. Il capolavoro di Melville, pertanto, non è soltanto il racconto di un viaggio commerciale che si estende attraverso i mari del globo intero alla ricerca del maggior profitto possibile, ma è anche la storia di un naufragio inevitabile nel momento in cui s’impone un principio estraneo a quello della frontiera economica. È il principio del capitano, di Achab. Il principio di un comandante che si erge a sovrano, al di sopra dell’interesse economico; Achab presume d’imporre la sua linea alla caccia in mare aperto; porta il suo equipaggio alla morte perché vuole trascendere il principio del profitto e istituire un principio di distinzione: le balene non sono più indifferenti tra loro né vige più il criterio della quantità, piuttosto ne identifica e ne elegge una in particolare come scopo, quella bianca, Moby Dick. Pretende di porre confini al mare, di trasformarlo in terreno di guerra, nel campo delimitato dalla sua vendetta personale; è quanto gli rimprovera Starbuck: «Mi sento d’incontrare la sua mascella storta e anche le mascelle della Morte, capitano Achab, purché cada giustamente nella linea del lavoro che seguiamo, ma io sono venuto qua per dare la caccia alle balene, non per la vendetta del mio comandante. Quante botti frutterà la tua vendetta, posto che tu la raggiunga, capitano Achab?»[5].
La frontiera americana non può fissarsi, irrigidirsi in confine: la sua espansione non si è arrestata nemmeno con la conquista definitiva del West, quando nel 1890 un bollettino ufficiale riporta: «Fino al 1880 incluso, il paese aveva una frontiera di colonizzazione provvisoria, ma ora l’area non colonizzata è stata lottizzata sì che si può appena parlare di linea di confine»[6]. La differenza con il confine resta irriducibile, ne era ben consapevole Turner, che, in tempi non sospetti, ha di fatto profetizzato l’espansione della frontiera americana oltre i confini degli Stati Uniti: «Sarebbe un profeta ben imprudente chi asserisse che il carattere espansivo della vita americana sia ora interamente cessato. Il movimento è stato il fattore dominante, e, se questo allenamento non ha effetto su un popolo, l’energia americana chiederà continuamente un campo più vasto per esercitarsi»[7].
La globalizzazione può essere un fenomeno leggibile alla luce dell’esperienza della frontiera, del suo state of mind, come scrive Turner: è la forma specifica dell’imperialismo americano, del suo s-confinamento di natura prettamente marittima ed economica – in questo più affine al modello imperiale inglese che a quello romano. E tuttavia, la frontiera – e la globalizzazione – comprende in sé, fin nel suo etimo, il rischio della sua perversione: imporre la linea alla fluidità del mare, innalzare e militarizzare un “fronte” contro un nemico che non minaccia alcuna guerra, ma serve per mantenere desta la vigilanza su un’identità ormai in crisi. Uno specchio sarebbe in grado di restituirgli la propria immagine distorta; ma la sovranità “monomaniaca” di Achab (come la definisce Deleuze) ha bisogno del muro di Moby Dick per non vedere che al di là nessun nemico preme alle porte: «Per me la Balena Bianca è questo muro, che mi è stato spinto accanto. Talvolta penso che di là non ci sia nulla. Ma mi basta»[8]. De-lineare la frontiera, far fronte contro Moby Dick: questa è la presunzione fatale di Achab, il sovrano che vuole fare del mare il proprio territorio. Ma, nello s-confinato, la sua è una sovranità impossibile – il muro è l’ultimo e disperato fronte su cui resiste.
Muri di frontiera
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Uno Stato-nazione che pretende di “regolare” i “flussi” di merci, informazioni e persone, che circolano attraverso uno spazio marittimo e imperiale, in base alla logica lineare e discriminante del territorio; una sovranità che presume di “regolare” le frontiere come se fossero confini – ecco il nuovo muro. I muri di oggi manifestano la crisi della sovranità e, più in generale, la crisi del paradigma politico della modernità. La loro costruzione svolge una funzione diametralmente opposta rispetto al passato. Nel violare il sacro recinto murario tracciato da Romolo, trovò la morte il fratello gemello Remo, avversario di Romolo nella disputa per diventare il re di Roma: le mura di confine e la loro violazione comportano simbolicamente – in quanto reductio ad Unum dell’ambivalenza mitica della gemellarità – l’istituzione della regalità, che, ricorda Cicerone nel De re publica, può essere uno soltanto a impersonare. Il rito della fondazione intendeva affermare prima di tutto, prima della stessa costruzione della città, il fondamento sacro del potere.
Anche oggi, la costruzione di muri sembra essere dettata, più che dall’efficacia, dall’esigenza di affermazione simbolica del potere, di rinvigorirne la sacralità perduta. Eppure, ciò che si rappresenta è soltanto la crisi e la fragilità – se non proprio il fallimento – della sovranità dello Stato-nazione. Perché oggi i muri – da quelli tra gli Stati a quelli tra quartieri ricchi e il resto della città – finiscono per rappresentare il fallimento della concezione moderna della sovranità? Le risposte potrebbero essere diverse, ma, per seguire il filo del ragionamento, è necessario definire chiaramente l’orizzonte storico-politico in cui la costruzione di muri si inscrive.
Roma e, più in generale, il mondo antico e quello medievale, ma non la modernità, costruivano muri. In seguito alle sanguinose guerre di religione agli albori dell’età moderna, a livello di topografia politica, al muro è subentrato il confine. Il con-fine presuppone un limite con-diviso da entrambe le parti: ne definisce e ipostatizza l’identità e, al contempo, determina il riconoscimento e la legittimazione reciproca di entrambe le sovranità. Invadere un altro Stato, oltrepassandone il confine, significa sostanzialmente contravvenire al patto che implica il riconoscimento della sovranità sul territorio. La violazione del confine da parte di uno Stato comporta la guerra e, secondo l’interpretazione che Carl Schmitt ha fornito dello jus publicum europaeum, la definizione dello Stato invasore come nemico pubblico, ma pur sempre riconosciuto giuridicamente come justus hostis. La guerra tra Stati-nazione appartiene alla logica politica del confine; i muri che si vanno oggi costruendo in contesti e con motivazioni diverse sanciscono l’inefficacia della guerra per risolvere questioni non riconducibili al conflitto tra Stati. Il muro di Berlino, invece, apparteneva ancora alla logica del confine: rappresentava il con-fine, seppur non semplicemente statuale, tra due ordini politici e ideologici che fondavano la propria identità sulla contrapposizione. Con la sua caduta è crollato forse il confine più radicale della modernità e si è annunciato il tramonto di un’epoca.
I muri oggi non vengono eretti per definire confini bensì frontiere; ma non si tratta della tipologia della frontiera mobile americana – e di ogni colonialismo in generale. Questi muri di frontiera sono immobili. Pur non riconoscendo alcun ordine politico al di fuori, non sono frontiere di conquista, bensì di difesa; a differenza del confine, non definiscono entrambe le parti, ma soltanto la rettitudine di una parte, quella interna: sono i baluardi di difesa contro gli attacchi alla democrazia e all’ordine interno, così se ne giustifica sovente la costruzione. Dove le nuove frontiere murate coincidono con il confine tra due Stati che riconoscono reciprocamente la sovranità sui propri territori, come per esempio il muro tra Stati Uniti e Messico, non si sostituiscono al confine, ma vi si sovrappongono. Infatti, il confine è posto e riconosciuto tra due Stati, mentre la frontiera murata è costruita soltanto da una parte, quella degli Stati Uniti, e non contro lo Stato messicano – contro uno Stato l’ultima ratio resta comunque la guerra –, bensì contro quella moltitudine indistinta e indeterminata di individui che provano a s-confinare illegalmente in territorio americano.
Nel mondo globale, confini e frontiere, piuttosto che venir meno, si moltiplicano, si sovrappongono e si confondono anche all’interno di un medesimo ordine politico-giuridico. Nell’Unione Europea, per esempio, i confini sono porosi all’interno degli Stati di Maastricht e rigidi ai suoi margini esterni; allo stesso tempo, torna nel Vecchio Continente anche la frontiera in quanto zona di espansione verso Est e verso i paesi dell’altra sponda del Mediterraneo. A complicare ulteriormente la topografia politica contemporanea a livello globale, si aggiunge il fronte della sovranità: il muro di frontiera. Dalla parte interna, l’ordine, la democrazia, lo stato di diritto e la cittadinanza e, dall’altra, il loro contrario speculare – donne e uomini di cui si riconosce esclusivamente la condizione fuori-legge, che non accorda loro nemmeno lo statuto di nemico, tutt’al più di criminale. È possibile tentare di definire coloro contro cui si erigono nuovi muri? Esclusi? O piuttosto barbari? Per i greci, i barbaroi erano l’assolutamente altro, il fuori assoluto, rispetto alla loro civiltà; e la loro civiltà corrispondeva all’umanità in quanto definita dal possesso del logos, il discorso razionale, che poteva essere articolato esclusivamente nella lingua greca. Barbaros, invece, significa “balbuziente”, colui che balbetta appena la lingua greca e, pertanto, il logos stesso.
Non sono forse barbari, anche oggi, coloro che, nei luoghi di frontiera in cui vengono bloccati e arrestati, al cospetto di una frontiera in prima istanza linguistica, spesso balbettano soltanto la lingua della civiltà in cui chiedono di essere ammessi?
I muri di frontiera di oggi comportano allo stesso tempo la differenza qualitativa della frontiera e la separazione netta tra interno ed esterno del confine. Nel mondo greco i barbari erano al di fuori del logos, nel mondo romano al di fuori del limes dell’impero; nel mondo contemporaneo, i barbari possono essere all’interno dei confini statuali e, al contempo, al di fuori delle frontiere murate.
Bibliografia
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Melville Herman, Moby Dick o la Balena (1851), Adelphi, Milano1987.
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Sordi Marta (a cura di), Il confine nel mondo classico, Vita e pensiero, Milano 1987.
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Turner Frederick J., La frontiera nella storia americana (1920), il Mulino, Bologna 1959.
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Zanini Piero, Significati del confine. I limiti naturali, storici, mentali, Bruno Mondadori, Milano 1997.
[1] F. J. Turner, La frontiera nella storia americana, il Mulino, Bologna 1959, p. 6.
[2] Ibidem.
[3] F. J. Turner, op. cit., p. 31.
[4] H. Melville, Moby Dick o la balena, Adelphi, Milano 1987, p. 363.
[5] Ivi, cit., p. 194.
[6] Citato in F. J. Turner, op. cit., p. 5.
[7] Ivi, p. 31.
[8] Melville, op. cit., p. 194.