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23.11

LA NONVIOLENZA E LA GUERRA NELLA EX-JUGOSLAVIA – DIBATTITO SULL’OBIEZIONE ALLE SPESE MILITARI

 

LA FRONTIERA

Alexander Langer

Alessandro Leogrande

22 Giugno,1992

 

Confermo che anche quest’anno ho praticato la mia obiezione alle spese militari. Sono stato anche pignorato. Continuo a credere che la Campagna alle spese militari sia un’iniziativa non solo simbolica, ma anche una delle cose più concrete che si possono fare È una Campagna che ci obbliga a ragionare di cose concrete, a decidere, anche se nel nostro piccolo, quale decisione prendere sul bilancio militare e ci obbliga a dare risposte concrete.

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La prima cosa che io vorrei sottoporre a questa assemblea è di inviare un messaggio di apprezzamento e solidarietà a coloro che in questi giorni stanno manifestando a Belgrado la loro opposizione al regime di Milosevic.
Penso che nella guerra in Jugoslavia ci troviamo di fronte a un varco difficilmente colmabile: cosa fare contro la guerra e cosa fare per la pace?
Comincio dalla seconda questione perché la risposta è più facile: ogni giorno che passa e ogni cosa che non siamo riusciti a fare per la pace rende drammatica la prima questione perché la guerra è già in atto e avanza.
Sul cosa fare per la pace, Verona si è confermata un luogo molto importante di incontro anche grazie al lavoro della Casa per la Nonviolenza. Penso che la cosa più importante che si possa fare è ristabilire tutti i possibili canali di dialogo e di solidarietà tra i vecchi protagonisti in Jugoslavia, gruppi, etnie e comunità, tra coloro di cui oggi si dice che sono incompatibili, che non possono più vivere insieme.
Molte delle cose che si possono fare positivamente per la pace, le abbiamo tentate anche se la domanda che spesso ci viene rivolta “ma dove sono i pacifisti di fronte al conflitto in ex Jugoslavia”, viene fatta perché l’attenzione dei mass media è rivolta alla situazione degli scontri, e sappiamo tutto dei bombardamenti, ma non sappiamo nulla dei luoghi nei quali la gente riesce ancora a convivere; il lavoro di tenere uniti i fili di comunicazione non fa notizia ma non per questo è meno importante.
Da questo punto di vista molti sforzi sono stati fatti. Sono molti gli incontri che si sono realizzati all’estero tra i diversi interlocutori della ex Jugoslavia che in patria non possono più incontrarsi.
Dobbiamo aprire le porte dell’Europa ai popoli della ex Jugoslavia nel senso che oggi che palesemente non è più agibile un tetto comune tra coloro che fino ad un anno fa vivevano nella Repubblica Federale Jugoslava, bisogna offrire una casa comune europea ai popoli della ex Jugoslavia. Questo ovviamente non avverrà fino a quando la Comunità europea si distingue per essere solo un mercato.
La casa europea è l’attesa politica più forte. Oggi però noi facciamo con la ex Jugoslavia come facciamo con i profughi, siamo disposti a pagare perché qualcuno gli accolga, ma non siamo disposti ad aprire le nostre porte; non siamo in grado di offrire un comune spazio giuridico e politico.
Io penso che su questo dobbiamo insistere molto, sia come cittadini che come istituzioni. Tutte le iniziative - siano campi di lavoro, solidarietà a profughi, convegni, tavoli di lavoro e occasioni di incontro - devono andare nella direzione di tener annodati i fili della comunicazione e creare un tetto comune, si tratta di fare un investimento nel futuro post bellico.
Voi sapete che nel caso della ex Jugoslavia tutta una serie di organismi internazionali hanno dichiarato forfait uno dietro all’altro: per prima, all’inizio della crisi, la CSCE, cioè la Conferenza per la sicurezza e per la cooperazione in Europa, nata ufficialmente dopo la riunione della Conferenza di Parigi del novembre 1990  (il primo organismo europeo dopo la fine della guerra fredda; la prima volta in cui in un organismo in Europa partecipavano rappresentanti dei due blocchi contrapposti, inizialmente erano 34, oggi sono diventati 57, ma non ha una sua decisionalità comune, non porta a soluzioni).
Accanto al consultivo tavolo politico, quindi con la presenza dei protagonisti politici, era stato previsto un altro tavolo consultivo più giuridico costituito da una commissione di alti magistrati europei, tra i quali l’ex Presidente della Corte Costituzione italiana Corasaniti.
Questa Commissione giuridica aveva dato alcuni consigli abbastanza saggi, per esempio aveva consigliato di dare un riconoscimento innanzitutto a quelle Repubbliche, che l’avessero chiesto, che garantivano la massima consistenza multietnica al loro interno, raccomandando in particolare la Bosnia-Erzegovina e la Macedonia, in quanto garantivano rispetto alle altre un maggior livello di protezione dei diritti e consistenza multietnica.
Peccato che questa raccomandazione sia stata disattesa per ragioni politiche a favore della Croazia, che in quel momento era sotto tiro e quindi il riconoscimento è stato ritenuto da molti governi, in particolare forzati da quello tedesco, una misura necessaria, per trasformare la guerra da conflitto interno a guerra internazionale e perciò sanzionabile dalla Nazioni Unite.
Anche altri consigli di questa commissione arbitrale non sono stati seguiti, per esempio era stato richiesto a tutti gli Stati che qualunque nuovo Stato aspirasse ad essere riconosciuto doveva garantire un alto livello di diritti umani e di diritti delle minoranze al proprio interno, questo è stato invece in gran parte dimenticato.
Un altro consiglio, che mi sembra tuttora attuale, era che nessun problema della ex Jugoslavia si poteva risolvere da solo, non era possibile sostanzialmente risolvere separatamente il problema della Slovenia, del Kossovo, della Voivodjna e così via, ma che in qualche modo doveva essere trovata una soluzione comune per evitare quello che poi in realtà sta succedendo.
Ognuno ha cercato un po’ come è successo a Beirut di occupare dal punto di vista etnico più territorio possibile, cioè cacciando via gli altri, infatti abbiamo milioni di profughi e questo è un qualcosa che l’Europa non aveva più visto dalla seconda guerra mondiale.
Questi profughi sono stati deliberatamente terrorizzati e indotti alla fuga per preparare la strada ad una spartizione per etnie, estremamente crudele.
Dovrebbe essere attivata una missione ONU anche armata, cioè con mansioni prettamente di polizia, per bloccare in particolare l’uso più pesante dei bombardamenti dal cielo e dal mare che è quello che ad una guerra civile conferisce una dimensione molto più che da guerra civile.
Non possiamo lasciare tutto all’ONU, dobbiamo anche noi cercare una soluzione a questa stupida guerra, che non sia fare la guerra alla Serbia o lasciare che semplicemente si ammazzino tutti.
Reclamo urgentemente alternative agli enti militari; trovo giusto che in questi ultimi anni nella Campagna di Obiezione alle spese militari si sia sempre più accentuata la richiesta anche di autorità politica e giuridica internazionale. Un qualcosa che riesca anche a dare fiducia in una autorità comune non di parte, un po’ quello che un anno fa i popoli della ex Jugoslavia si aspettavano ancora dalla Comunità Europea e che oggi invece, ormai delusi, non credono più che la Comunità Europea sia in grado di dare.
La Comunità Europea e la Comunità internazionale in generale non hanno investito nella pace, non hanno favorito quelle repubbliche e quelle realtà all’interno della ex Jugoslavia più disposte alla pace, comprese in particolare le realtà istituzionali come la Bosnia-Erzegovina e la Macedonia, soprattutto perché erano economicamente deboli, ma che erano realtà molto importanti dal punto di vista della possibilità di convivenza multietnica, non sono state aiutate da nessuno.
Purtroppo ogni cosa che stiamo discutendo oggi, doveva essere fatta ieri se non l’altro ieri. Ormai è difficilmente recuperabile ora.
I profughi giustamente continuano a domandarsi e domandarci: “ma cosa sta aspettando l’Europa per aiutarci?”
Questo non vuol dire che bisogna intervenire a tutti i costi, ma bisogna anche rammentare che dove ci sono forti interessi commerciali come nel caso della Guerra del Golfo, causata dall’invasione irachena del Kuwait, la Comunità internazionale si è mossa immediatamente, mentre in Jugoslavia non essendoci petrolio è rimasta purtroppo solo a guardare...
 

Intervento trascritto da registrazione del 22 giugno 1992. Dibattito alla "Casa per la nonviolenza" sull’obiezione di coscienza alle spese militari. Pubblicato postumo su Azione nonviolenta, luglio-agosto 1996

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© 2004-2020 Fondazione Alexander Langer Stiftung

2015 

 

PROLOGO

«Il sommozzatore si cala in fondo al mare, si tira giù con l’aiuto di una corda, sembra una pertica conficcata sul fondale. L’uomo pare danzare, la tuta nera è avvolta da scie di bollicine. A tratti si sente il rumore dell’aria sputata fuori.

Al primo sommozzatore se ne aggiunge un altro, poi un altro ancora. Tutti hanno scritto sul braccio destro GUARDIA COSTIERA. Dopo alcuni secondi circondano il

relitto.

Adagiato a quaranta metri di profondità, al largo dell’isola di Lampedusa, il peschereccio sembra in secca, incuneato nella sabbia chiarissima del fondale. I tre sub, le bombole sulle spalle, calcano il ponte della piccola imbarcazione ed entrano da una porta laterale. Passa qualche secondo, ed estraggono il corpo di una donna.

Assomiglia a una bambola gonfiabile per la lievità con cui, sul fondo del Mediterraneo, scivola fra le loro mani. La donna è di spalle, il corpo è fasciato da pantaloni scuri e una maglietta. All’estremità spuntano le braccia e i piedi neri. I capelli lunghi e crespi sono raccolti in una coda. La donna viene spostata e adagiata pochi metri più in là, in un angolo del ponte. Poi entrano nella cabina accanto. Sui letti ci sono due corpi. Un altro è ritto, a testa in giù. La maglietta si muove, a tratti scopre la pancia snella, irrigidita.

Nella terza cabina c’è un uomo seduto, la bocca aperta e il corpo immobile, il taglio degli occhi sottile, le mani su un tavolino, come se fosse lì ad aspettare da mesi quell’incontro. È un lavoro lentissimo. I sommozzatori tirano fuori i corpi di un ragazzo e una ragazza, poi quello di un’altra ragazza, dalle strette cabine in cui, anche se tutto è

sottosopra, regna una strana calma. Il silenzio assoluto rallenta ogni gesto.

Ora i corpi sono raccolti sulla sabbia accanto al relitto. Giacciono in fila, mentre gli uomini della Guardia costiera ne aggiungono altri e altri ancora. Sono decine, centinaia. Compongono una fila lunghissima. Ci sono quelli con la faccia riversa, quelli con gli occhi sgranati, quelli con le braccia alzate, quelli con le mani raccolte sotto il capo, come se dormissero. Quelli che giacciono vicini, quasi abbracciati.

Quelli che indossano ancora i giubbotti, i pantaloni, i maglioni. Quelli che hanno provato a liberarsi dei vestiti. Quelli con le scarpe e quelli scalzi. Quelli impassibili e quelli stropicciati da uno strano sorriso.

Sono tutti neri, tutti giovani.

I sommozzatori continuano la loro operazione come se l’acqua non ci fosse. Come se attraversassero un paesaggio lunare. I corpi adagiati sulla superficie piana della sabbia paiono stesi sulla nuda terra. Che siano schiacciati dalla pressione o tenuti sul fondo dall’acqua che ha fatto scoppiare i polmoni, nessuno si alza dal suolo o fluttua. Sono raccolti in gruppi. Attendono pazienti, inerti, mentre i sub continuano a danzare intorno al peschereccio. Uno alla volta, vengono imbracati e portati su.

A bordo del battello della Guardia costiera c’è un viavai di gente. Gambe che si muovono, piedi che scattano, mentre gli uomini avvolti nella tuta si alzano dal mare. Tra le onde, in uno spicchio blu scuro davanti al battello, alcuni corpi

galleggiano gonfi, le gambe divaricate, in un mucchio indistinto di colori.

Nel trambusto generale, il corpo di un bambino viene adagiato sulle assi di legno del ponte. Avrà un anno, un anno e mezzo al massimo, la maglietta rossa, i capelli

arruffati, le guance paffute. L’acqua defluisce dalle membra.

La testa poggia su un lato, sotto il sole. Inerme.»

 

«C’è una linea immaginaria eppure realissima, una ferita non chiusa, un luogo di tutti e di nessuno di cui ognuno, invisibilmente, è parte: è la frontiera che separa e

insieme unisce il Nord del mondo, democratico, liberale e civilizzato, e il Sud, povero, morso dalla guerra, arretrato e antidemocratico.»

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La Frontiera (Prologo) 

© Giangiacomo Feltrinelli Editore, Milano, 2015, 2017

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