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28.11

DIARIO D'ALBANIA

 

TIRANA UNDERGROUND

Alexander Langer

Alessandro Leogrande

17 Dicembre,1990 

 

Diario di un viaggio in Albania, dicembre 1990, come incaricato dalla Commissione Politica del Parlamento Europeo di preparare una relazione ed una proposta di risoluzione sui rapporti tra l'Albania e la Comunità Europea. 

Langer - anche su sollecitazione unanime dei colleghi - decise di recarsi a questo scopo in Albania, per rendersi più direttamente conto della situazione e degli sviluppi politici in quel paese. Ancor prima che si profilassero gli eventi recenti, la data del viaggio fu fissata per la seconda settimana di dicembre 1990. Il programma della visita prevedeva numerosi incontri con autorità varie ed alcune escursioni; contatti con interlocutori non ufficiali e critici verso il regime non potevano, ovviamente, essere fissati tramite i canali ufficiali; alcuni ne erano stati avviati prima del viaggio, ma non vi era in partenza nessuna garanzia di riuscita. 

Langer è stato accompagnato in questo viaggio da Mme.Martine Charriot-Schneider, funzionaria dirigente dell'Ufficio studi del Parlamento, e dal prof. Michele Colafato, sociologo dell'Università "La Sapienza" di Roma ed originario di una comunità "arbresh" nel Molise.

Sul rapporto di Langer la Commissione Politica ha discusso una prima volta il 19-12-1990, ed una seconda il 9-1-1991, approvando in quella occasione all'unanimità (salvo due astensioni) la proposta di risoluzione presentata da Langer, che prevede l'apertura di rapporti tra C.E. ed Albania, l'incoraggiamento del processo democratico, l'ingresso dell'Albania nella CSCE, la cooperazione mediterranea con l'Albania, l'instaurazione di scambi culturali, economici, scientifici e tecnici, e che sollecita il governo albanese di rinviare la data delle elezioni per consentire a tutte le forze politiche una adeguata preparazione. Infine invita le minoranze (ed in particolare quella greca) a non lasciare il paese, ed il governo a garantire loro adeguate condizioni di vita e di lavoro ed il rientro senza discriminazioni a chi se n'è andato. La "risoluzione Langer" è stata poi approvata dal Parlamento europeo in aula, dopo dibattito, a Strasburgo, in data 22.2.1991, aprendo così la via a normali rapporti tra C.E. e Albania.

10 Dicembre1990, lunedì

Dopo aver partecipato ad una settimana di seminari internazionali in America Latina (Argentina, Uruguay), con gruppi ecologisti di base, sui temi dell'"ecologia sociale" e di "ambiente e povertà", torno in Italia. Non c'è tempo sufficiente per andare a casa, perchè il giorno dopo devo partire assai presto per l'Albania. Così, per fortuna, non mi raggiunge la notizia che l'ambasciata albanese a Roma e l'ambasciata italiana a Tirana vorrebbero farmi rinviare il viaggio, visto che il governo albanese non sembra entusiasta di avere visite durante un periodo di tensione politica. Sui giornali di lunedì si trovano brevi notizie di cronaca su proteste studentesche a Tirana, riferite a problemi di riscaldamento insufficiente nei collegi.

11 Dicembre 1990, martedì

Parto con Colafato da Roma a Bari, e da lì per Tirana; Mme.Charriot a Bari non è sull'aereo, e quindi capisco che ci devono essere stati dei problemi. Sui giornali si leggono ulteriori notizie su proteste studentesche a Tirana, e si parla di democrazia e di pluralismo, non più di riscaldamenti guasti.

A Tirana ci attende in aeroporto il capo-protocollo del Parlamento albanese. Abbiamo fortuna: ci viene assegnato, come interprete, un giovane politologo albanese che in un convegno in Italia ho già avuto modo di conoscere ed apprezzare. Con due vetture di stato (Peugeot) raggiungiamo la città. Quel che si vede nelle campagne intorno, ricorda l'Italia meridionale di 40-50 anni fa: molte bestie al pascolo, bestiame anche lungo la strada; poco traffico (quasi solo camion, corriere e trattori); veicoli semplici a trazione animale; gente su asini, muli e cavalli, e molti a piedi, spesso con attrezzi e prodotti agricoli. Disseminati nelle campagne si vedono tanti piccoli bunker, chiamati "funghi", che costituiscono una testimonianza della dottrina albanese di difesa nazionale. Sono stati costruiti, con grande dispendio di mezzi, dopo l'invasione sovietica della Cecoslovacchia. Forse allora davvero un intervento simile in Albania non era così impensabile. Chissà se questi mini-bunker avrebbero consentito una difesa non solo eroica, ma anche efficace...

Giunto a Tirana, mi presento subito all'ambasciatore italiano, visto che l'Italia detiene attualmente la presidenza della C.E., e mi informo sulla situazione. Poco dopo al Ministero degli esteri si svolge il primo incontro ufficiale, di quelli previsti. Si tratta di una lunga conversazione con Rolanda Dhimitri, vicepresidente della Commissione Esteri del Parlamento albanese e vice-rettore dell'Università "Enver Hoxha" di Tirana, insieme al direttore politico del Ministero, Petraq Pojani. Entrambi esprimono fiducia nel processo di democratizzazione, avviato - come ribadiscono - dal presidente Ramiz Alia, e si augurano di poter avere finalmente rapporti più stretti con l'Europa in generale, e con la Comunità dei 12 in particolare. Ci si lamenta della freddezza dimostrata alla Conferenza CSCE di Parigi verso l'Albania (ammessa come osservatrice, non come membro a pieno titolo), e della mancata risposta alla domanda albanese di istituire reciproci rapporti tra C.E. ed Albania. Interpellati sui moti studenteschi, i nostri interlocutori tendono a rispondere piuttosto al ribasso (riscaldamento, mancanza di energia a causa di un'estate con grande siccità...), ma vi vogliono scorgere anche un fattore di accelerazione delle riforme avviate dal Presidente Ramiz Alia. Durante la nostra conversazione e la successiva cena, notiamo vari messaggi che vanno e vengono, probabilmente via telefono. Più tardi veniamo a sapere la ragione: in contemporanea con la nostra conversazione c'è stata una riunione di Ramiz Alia con una delegazione di studenti, alla sede del partito, ed evidentemente i nostri interlocutori volevano essere via via aggiornati sugli eventi. Notiamo che nel corso del colloqui l'espressione "pluralismo politico" comincia a fare capolino.

Aspettiamo impazienti la fine della cena ufficiale perché dalle strade si sentono rumori che sembrano indicare assembramenti in corso. Decidiamo di uscire subito dopo il congedo dai nostri ospiti. Tirana in generale è poco illuminata, c'è molto fango e molte pozzanghere. Ma seguiamo semplicemente la gente che sembra in gran parte diretta allo stesso posto, e ci avviciniamo alla fonte dei rumori: il grande piazzale tra le "case dello studente" o "i dormitori", come vengono chiamati lì. E vi troviamo, con grande sorpresa e contentezza, un'assemblea di almeno 20.000 giovani, all'aperto ed al buio. Via altoparlante viene diffusa la registrazione dell'incontro tra Ramiz Alia e la delegazione (composta di circa 30 persone, tra cui 8 ragazze e 4-5 professori, chiamati "pedagoghi"). Si sente tutto ben distintamente: gli studenti che danno del tu al Presidente, senza complimenti, e che ripetutamente chiedono una formale garanzia per l'introduzione del pluralismo politico. "Quindi possiamo ora formare un nostro partito?" si sente chiedere. "Come possiamo presentarci ai nostri compagni senza una risposta chiara a questa domanda?" E solo dopo averla ottenuta, affermativa, gli studenti sono disposti a concludere l'incontro. La folla risponde con entusiasmo, e riusciamo a parlare con tantissimi giovani, in un'atmosfera di fraternità e di giubilo. Tutti o quasi sanno almeno una lingua straniera, spesso l'italiano, o il francese, ma anche l'inglese, il tedesco, qualche volta il greco o il serbo-croato o il russo. Molti si lamentano con noi che "RAI 1" col suo Telegiornale - che si riesce a vedere in Albania - non informa abbastanza sulle vicende albanesi: "è la nostra finestra sul mondo, perchè ci dimenticano così spesso?" Veniamo pregati di attivare la solidarietà della gioventù europea per gli studenti albanesi.

12 Dicembre1990, mercoledì

I giornali pubblicano in prima pagina la foto del colloquio del Presidente con gli studenti e riportano le prime decisioni del "partito del lavoro": dimissionati 7 membri del Politbüro, convocato un attivo straordinario del partito per il 26 dicembre 1990, anticipato il congresso al giugno 1991, accelerazione del processo di democratizzazione. Gli studenti, cui chiediamo un giudizio, non si mostrano ancora soddisfatti: lamentano, tra l'altro, che il "nocciolo duro" del vecchio regime intorno alla vedova del despota Enver Hoxha ed al Ministro degli interni siano ancora ai loro posti.

Mi viene da pensare ad una commedia del mio amato autore viennese Nestroy, intitolata "A pian terreno ed al primo piano" (vi si rappresentano due parallele vicende, di una famiglia proletaria ed una borghese, che abitano nella stessa casa, a pianterreno ed al primo piano). Anche la nostra visita si svolge continuamente su questi due piani. Oggi incontriamo Kleanthi Koci, presidente della Suprema Corte e segretario della Commissione per la revisione costituzionale. Una conversazione assai approfondita, che già riflette chiaramente le vicende notturne: elogio alle misure di riforma del Presidente (tra le quali l'apertura alla libertà religiosa, la reintroduzione di un Ministero della giustizia e della professione di avvocato, la riforma del codice penale, la possibilità di presentare candidature indipendenti alle elezioni con 300 firme di sostegno, l'abolizione formale del monopolio del partito comunista, l'apertura a certe forme di partecipazione estera ad investimenti e l'introduzione di un settore privato nell'economia..) e si dice convinto che questo processo ora andrà avanti con più decisione. Si mostra scettico sul futuro del proprio incarico: il 10 febbraio 1991 il Parlamento verrà comunque rinnovato, e saranno i nuovi a decidere la riforma della Costituzione e la sua permanenza alla testa della Suprema Corte. Sugli studenti si esprime in termini cautamente positivi. Nega con decisione ogni sistematica violazione dei diritti umani (tortura, repressione politica, religiosa o etnica, ecc.); semmai - afferma - poteva trattarsi di qualche isolato caso di eccessi individuali, punibili a norma di legge e talvolta anche puniti (ci parla di un giudice istruttore incorso in una pena); in ogni caso nella nuova Costituzione verrà sanzionato esplicitamente il divieto della tortura. Anche la libertà di uscita e rientro nel paese sarà sempre meglio definita e regolamentata - "ma forse all'estero non saranno proprio felici a vedersi arrivare ora anche gli albanesi." Ed i "profughi delle ambasciate" del luglio scorso rappresenterebbero piuttosto la feccia del popolo albanese, non si dovrebbe commettere l'errore di giudicare l'Albania da loro (questo parere viene condiviso da molti altri, anche da esponenti dell'opposizione).

Dirigendomi verso il quartiere universitario noto molta polizia e militari. Sembra in forse l'assemblea prevista per il pomeriggio, o perlomeno non si sa ancora se la gente vi potrà liberamente affluire. Ma qualcuno pensa anche che non sia altro che un "normale" servizio d'ordine, magari con in più il compito di non far arrivare delegazioni operaie tra gli studenti. Si sente parlare, infatti, di diverse fabbriche in cui gli operai avrebbero solidarizzato con gli studenti, i tipografi avrebbero persino scioperato ed inviato una loro rappresentanza, ed anche nelle altre fabbriche vi sarebbe simpatia per gli studenti. Si incontra gente che spontaneamente dice di essere fiera di "questi nostri giovani". Sul grande piazzale tra i dormitori degli studenti continuano ad affluire persone, non solo giovani e studenti, fino a raggiungere un numero tra 70.000 e 100.000. Tutti dicono "l'intero popolo albanese è con noi". Non appena si viene identificati come stranieri, si formano subito assembramenti di persone che vogliono domandare, raccontare, commentare. "Gli studenti in Europa stanno manifestando per noi?" ci viene chiesto. Mi si invita a parlare alla folla, e solo con grande difficoltà ed abnegazione rifiuto di farlo (nel timore che possa essere ritorto contro gli studenti, come prova di ingerenza straniera).

L'assemblea non può iniziare subito, è saltata la corrente ed i microfoni non funzionano. Sabotaggio? Non si sa. Per un attimo si teme un intervento poliziesco, magari appena dopo il crepuscolo. Ma poi i microfoni si accendono, perchè la corrente è stata fatta arrivare con un lungo cavo da un altro edificio, ed i discorsi possono cominciare. Uno studente di nome Azem Hajdari apre la manifestazione, e subito si capisce che ormai si è di fronte alla formazione di un vero nuovo partito politico. Probabilmente si chiamerà semplicemente "partito democratico", come modello si guarda alla "lega democratica" del Kossovo (la regione della Jugoslavia abitata da quasi tre milioni di albanesi). Parla poi un cardiologo di nome Salih Berishi, già noto in precedenza come persone critica verso il regime; tocca i temi del pluralismo e dei diritti umani e dichiara che gli studenti possono contare sull'appoggio di vastissimi strati della popolazione. Dopo di lui tocca all'attore Arben Imame spiegare il programma provvisorio del nuovo partito, di cui si chiede l'immediato riconoscimento legale da parte del neo-costituito Ministero della Giustizia. Le rivendicazioni principali riguardano i diritti umani, la democrazia, il pluralismo politico, l'inserimento dell'Albania in Europa di cui si considera parte integrante, la riforma dell'economia (grosso modo pare che si pensi all'economia di mercato, ma se ne parla ancora vagamente), la riduzione dell'orario di lavoro (si lavora in media 48 ore la settimana, con sole due settimane di ferie all'anno), l'informazione pubblica corretta e veritiera, la solidarietà per gli albanesi del Kossovo. La folla continua ad applaudire i passaggi salienti e a gridare slogans come "vivid demokraci!" e "in Albania come in tutta Europa". 

Vado poi all'ambasciata italiana e cerco di richiamare l'attenzione della RAI sugli eventi albanesi, cercando di mobilitare tutti i miei conoscenti che possono far qualcosa a questo proposito e che riesco a contattare malgrado le difficoltà telefoniche. Non ci sono quasi giornalisti stranieri presenti ai fatti, e questo movimento può farcela solo se l'Europa ne prende consapevolezza e lo sostiene. I collegamenti però sono assai difficoltosi, e riesco a rispondere solo a pochissime chiamate tra quelle che sono arrivate per me all'ambasciata (tra cui "Il Manifesto", "Radio radicale" e "Radio popolare", ma anche l'agenzia di stampa austriaca APA, "Il Sole-24 ore", il giornale-radio della RAI di Bolzano..). L'ambasciatore d'Italia organizzerà per il giorno dopo un mio incontro con i 4 ambasciatori "comunitari".

Al più tardi da oggi si può dire che il pluralismo esiste in Albania: la gente è uscita dalle catacombe, sulla strada si riesce a parlare con molti (ma si avverte anche parecchia paura), noi siamo riusciti a fissare un appuntamento con alcuni studenti per la sera ed a rispettarlo. Nel frattempo è arrivata anche Mme.Charriot, con utile documentazione del Parlamento europeo. Peccato che non abbia potuto assistere alle due grandi, entusiasmanti assemblee. Colafato viene accolto dovunque con simpatia particolare, in quanto "arbresh". Ci vengono raccontate biografie di studenti, in lunghe conversazioni serali (in passeggiata, non ci sono locali dove ci si possa incontrare). Uno studente di architettura ci indica con ribrezzo la continuità stilistica tra le opere del periodo fascista (occupazione italiana) e di quello stalinista: "come possiamo imparare a progettare e costruire diversamente, se non possiamo mai andare da nessuna parte né conoscere altro?" Il figlio di uno scienziato di fama racconta che il sogno di suo padre sarebbe una stanza in più (da usare come studio) ed un telefono a casa.. Uno degli studenti ci accompagna fino all'albergo ed infine decide di entrare con noi (che vorremmo invitarlo a cena) - ma poi tutti gli altri albanesi presenti - si tratta di personaggi più o meno ufficiali, spesso implicati nell'export-import - lo fissano con occhi tali da fargli passare l'appetito e forse si pente della sua stessa prova di coraggio.

13 Dicembre1990, giovedì

Succede qualcosa che in altri tempi sarebbe stato impensabile: due operai, con i quali avevo avviato un contatto indiretto ancor prima di partire per Tirana, sfidano il divieto e osano entrare nella hall del nostro albergo per chiedere di me al portiere. Stabiliamo di rivederci il pomeriggio, e come luogo dell'appuntamento propongo un punto tra i due monumenti a Lenin ed a Stalin. Uno di loro se la ride e risponde: "se ci saranno ancora, questa sera..."

Poi naturalmente le cose non si evolvono in modo così precipitoso, ed i monumenti non corrono immediato pericolo (ma si saprà il 21 dicembre che quello a Stalin è stato rimosso d'ufficio, alla vigilia di una nuova manifestazione studentesca). Noi intanto andiamo all'incontro con Muhamet Kapllani, vice-ministro degli esteri (il ministro titolare è fuori sede e si trova a Cuba; qualcuno ci scherza sopra e dice che vi vorrebbe prenotare un esilio per tutta la nomenklatura albanese). Le parole di Kapllani sono molto ferme e chiare: nulla contro gli studenti, che in tutto il mondo sono sempre un po' critici, ma di un imminente cambio di regime non si parla neanche). La democratizzazione potrà arrivare fino al punto che il governo vorrà accettare. E' molto deciso nel rivendicare un atteggiamento diverso e più positivo dell'Europa verso l'Albania. Gli rispondo che molto dipenderà da come il governo risponderà al nuovo movimento e dal prosieguo della democratizzazione, e che probabilmente la gioventù albanese in pochi giorni aveva confezionato il migliore biglietto da visita che l'Albania potesse presentare in Europa. Il ministro reagisce sull'agrodolce e ci saluta perchè deve inaugurare la conferenza inter-balcanica sui trasporti.

Noi invece veniamo accompagnati con le nostre due limousine a vedere un enorme "kombinat" industriale a Elbasan (circa 50 km a sud di Tirana): un vero e proprio monumento all'inquinamento ed all'archeologia industriale, con 12.000 operai, che sembra un parente dell'Italsider di Bagnoli. Peccato che non si sia potuto realizzare l'incontro previsto con Farudh Hoxha, vice-ministro competente per l'ambiente.

In città abbiamo occasione di parlare un po' con la gente: notiamo che sanno le cose essenziali sugli eventi dei giorni scorsi, e che i loro pareri divergono: tutti sono contenti che qualcosa cambi, ma alcuni vorrebbero subito la democrazia, senza limitazioni, ed altri invece dicono che "chi non sa guidare non deve sedersi al volante di una vettura troppo veloce".

Nel corso del pomeriggio si svolge, alla sede dell'ambasciata italiana, l'incontro con i 4 ambasciatori "comunitari" (Italia, Francia, Germania e Grecia). Noi in tre giorni cruciali abbiamo potuto vedere dal vivo cose che la diplomazia normalmente riesce a percepire solo in forme abbastanza diluite e attutite. Tra gli ambasciatori c'è chi mostra un certo pregiudizio verso l'Albania e gli albanesi, e chi invece appare più aperto. Tutti concordiamo che la situazione non appare ancora decisa univocamente in favore della riforma, ma che Ramiz Alia non sembra puntare alla repressione frontale, anche se il partito ovviamente non cederà facilmente porzioni di potere, e che la Comunità Europea dovrebbe ora gettare sul piatto il proprio peso per incoraggiare il processo democratico. In quest'ottica ci mettiamo in contatto, subito dopo la riunione, con la Presidenza del Parlamento europeo e con il Ministero degli Esteri italiano (in quanto presidenza di turno della C.E.). Vorremmo ottenere che il vertice dei 12 che comincerà il giorno dopo a Roma ("Consiglio europeo") mettesse in agenda anche la questione albanese. Più tardi sapremo con soddisfazione che il Presidente del P.E., il socialista spagnolo Enrique Baron Crespo, riuscirà effettivamente a richiamare l'attenzione dei capi di stato e di governo su questo problema, e le poche righe che verranno inserite nel comunicato finale del vertice di Roma in Albania suscitano in tutti una grande impressione perchè si avverte che l'Europa comincia finalmente ad interessarsi di questo paese.

La sera aumenta la presenza della polizia a Tirana, ed aumenta anche le gente che con preoccupazione allude all'esperienza della Romania. I nostri giovani amici non sono più così certi che il mausoleo a Enver Hoxha ("commissionato dallo Stato a sua figlia, con una spesa di 55 milioni di dollari che sono sangue del popolo albanese") verrà trasformato in discoteca in tempi così rapidi come loro speravano.

Andiamo ad un incontro ufficiale col nuovo partito, che provvisoriamente ha il suo quartier generale in una "casa dello studente". Nell'ufficio in cui ci riuniamo vediamo alla parete ancora la fotografia obbligatoria di Enver Hoxha, incorniciata, e sullo scaffale molti volumi delle sue opere. La nostra impressione è che la guida del movimento sia passata molto velocemente dalle mani degli studenti a quelle di intellettuali. Il cardiologo Salih Berishi e l'economista Gramoz Paschko occupano il palcoscenico, lo studente Azem Hajdari interviene pochissimo, gli altri studenti ascoltano soltanto. La registrazione legale del nuovo partito appare ancora del tutto in forse. Esplicita e ferma è la condanna degli "eccessi" che vengono riportati da Kavaje e da Durazzo (Durrhes) - l'attore Imame interviene in questo senso alla televisione, a nome del nuovo partito "in fieri", e così i telespettatori ne sentono per la prima volta ufficialmente il nome (se ne parla in quanto "pompiere", non se ne comunicano gli intenti programmatici). Si prendono dunque le distanze dagli "hooligani". Chiediamo se vi siano stati morti, feriti, arrestati (anche in seguito ai moti studenteschi dei giorni passati), e continuiamo a ricevere risposte rassicuranti. Anche una studentessa di Valona, che in ambasciata veniva data per uccisa, in realtà sarebbe viva ed in via di miglioramento, ci dicono. Ci meravigliamo un po' del peso relativamente scarso che i nostri interlocutori - compresi gli studenti - sembrano attribuire a questi interrogativi.

Invece si dà molto peso alla questione del Kossovo, e si intuisce (come ci capiterà pure in molte altre conversazioni, ufficiali e non), che la democratizzazione dell'Albania provocherà anche un più diretto interessamento albanese per il Kossovo, e forse nostalgie irredentiste tra la popolazione albanofona di quella regione jugoslava alla quale ingiustamente viene negata la dignità di repubblica, ed alla sua popolazione rifiutato il riconoscimento di pari dignità con le altre nazionalità della Jugoslavia (sarebbe la terza, in ordine di grandezza, dopo i serbi ed i croati). Finora la situazione chiusa dell'Albania non aveva invogliato a cercarvi un proprio punto di riferimento, ed il regime era stato sempre attento a non provocare la Jugoslavia, ma ora è probabile che la gente in Albania manifesterà, tra poco, sulle strade e sulle piazze per chiedere un più immediato sostegno alle rivendicazioni dei kossovari albanesi, e forse a Prishtina si sentirà proporre la grande Albania come alternativa ai soprusi dei serbi. Meno male che noi possiamo esibire le nostre carte in regola: al Parlamento europeo ci siamo sempre battuti con energia per i diritti dei kossovari.

Sulla via del ritorno verso l'albergo veniamo ripetutamente interpellati e fermati da molta gente, ed invitati spontaneamente a prendere uno spuntino in una poverissima ed inospitale bettola, calda solo perchè piena di fumo e di gente. Non sappiamo come ringraziare, e lasciamo alla fine una apprezzatissima cartolina con veduta di Strasburgo - sede del Parlamento europeo, dal quale qui ci si aspetta molto. Siamo circondati in ogni passo che facciamo da gente che vorrebbe raccontarci come vive e che cosa spera - e mostrare che sa le lingue. Molti giovani vorrebbero emigrare, piuttosto che aspettare tutto il tempo necessario perchè le cose cambino profondamente in Albania.

A notte tarda ci riuniamo ancora in una stanza d'albergo, scambiandoci le nostre impressioni: siamo piuttosto preoccupati, non pare escluso il rischio di scontro e repressione frontale, e la nuova opposizione sembra ancora ben lontana dall'essere all'altezza dei compiti che la storia le sembrerebbe voler assegnare.

14 Dicembre1990, venerdì

La mattina subito cerchiamo di informarci sulle manifestazioni e sui "disordini" di cui abbiamo sentito la sera prima. Si sente dire di negozi saccheggiati e devastati. I nostri interlocutori parlano di vandalismo, attribuito essenzialmente a "criminali ed ex-detenuti" o a "gente scesa dalle montagne, col coltello facile", ma nel corso della giornata si sentono anche altre voci, e ci pare piuttosto strana questa esplosione di "criminalità" e di barbarie simultanea in diverse città del paese. Personalmente tenderei a pensare - ed a buttare lì in qualche conversazione con interlocutori ufficiali - che la tensione così provocata giova solo agli avversari delle riforme ed alludo a provocazioni che potrebbero venire anche dalle file degli apparati di polizia (dico: "se fossimo in Italia, penserei così..."). Gli interlocutori ufficiali, a loro volta, ripetono tutti la stessa cosa: "c'è solo da meravigliarsi come mai la polizia non sia intervenuta più energicamente.. ecco cosa succede quando il pluralismo degenera in anarchia..."

Un pranzo di lavoro col direttore dell'Istituto per le relazioni estere ci dà poi ampio modo di conoscere le idee e le valutazioni di chi vorrebbe riformare l'Albania dall'alto. Il prof.Sofokli Lazri, infatti, un signore anziano, vivace e molto colto, è noto per essere consigliere e uomo di fiducia del presidente Ramiz Alia. Dalle sue parole comprendiamo che la democratizzazione viene ormai considerata irreversibile, ma che si vorrebbe mantenere il controllo sui tempi di questo processo, e che ci si domanda come fare per cominciare ad ammorbidire e sciogliere cautamente l'intero apparato di stato e di partito - forse si sarebbe più felici se fosse un po' biodegradabile. E magari il presidente - così ci pare di sentir dire tra le righe - sta cercando un modo per arrivare a governare senza il suo partito. Viene spontaneo un parallelo con Gorbaciov. Anche nella lunga conversazione con Lazri torna con insistenza il motivo dell'Albania che si sente europea e che ha bisogno dell'Europa, e che si vive come umiliata e negletta. "Perchè l'Occidente non ha mai mostrato apprezzamento per l'uscita dell'Albania dal Patto di Varsavia e per l'espulsione della marina sovietica dal mare Adriatico (base di Valona)?" ci viene chiesto. Invece si tende a sfumare nel dimenticatoio il contributo del regime all'auto-isolamento del paese.

La sera invitiamo un'ampia compagnia di nuovi amici albanesi ad una cena in un piccolo ristorante "privato", aperto da poco (il primo a Tirana). All'inizio gli studenti e gli operai si mostrano assai ritrosi perchè diffidano dei giornalisti ed intellettuali albanesi, da noi invitati, e perchè comunque considerano un po' rischiosa una riunione con più di 4-5 persone. Ma poi il ghiaccio si scioglie e tutti sono contenti e persino commossi per questa "prima cena libera dopo 50 anni".

Nel frattempo si intensificano e si estendono i "disordini", e per la prima volta succede che esponenti del clero (cattolico ed islamico) possono parlare alla radio - ora c'è bisogno di loro, perchè invitino alla calma. Veniamo a sapere, in termini piuttosto vaghi, che vi sarebbero state manifestazioni a Elbasan, Shkoder (Skutari), Korce, Saranda e forse anche a Gjirokastro.

15 Dicembre1990, sabato

Visitare il centro della città di Durazzo (Dhurres) non sarebbe consigliabile, ci dice il capo-protocollo, e dirotta la nostra escursione verso la zona balneare della città. Si intuisce che dopo le tensioni dei giorni precedenti il passaggio di una vettura di stato potrebbe provocare reazioni indesiderate. Più tardi, a Tirana, un operaio ci informa su cosa sarebbe successo: un carico etichettato come "chiodi e viti", destinato all'Unione Sovietica, si sarebbe rotto durante l'imbarco nel porto di Durazzo, ed il contenuto si era rivelato essere invece una abbondante partita di formaggio, di cui la popolazione ha molto bisogno - ecco cosa aveva innescato la protesta, e forse non c'è quindi da meravigliarsi più di tanto per l'entrata in scena degli "hooligani".

Comunque è un vero e proprio coro che si alza contro gli "hooligani" o "vandali", ed i nostri interlocutori ufficiali non si stancano di sottolineare che non esiste alcun paese al mondo in cui sia lecito spaccare le vetrine e scatenare la violenza durante una manifestazione politica - non si riesce a capire come mai la polizia non abbia reagito in modo adeguato. Noi ci informiamo su eventuali vittime della repressione, ma non se ne riesce a sapere molto, e le voci che circolano appaiono piuttosto incontrollabili: si era parlato, per esempio, della morte di una studentessa e di 34 studenti feriti, ma i capi del nuovo partito e gli studenti ci smentiscono entrambe queste notizie.

Veniamo a sapere da due lavoratori, iscritti al sindacato, che nel frattempo la battaglia politica ha investito gli "organismi di massa" del regime: sono stati riuniti i segretari sindacali ed altri dirigenti di analoghe organizzazioni per programmare la lotta contro le defezioni dal partito e contro la tentazione di aderire al nuovo partito democratico. "Cosa ci succede se aderiamo al nuovo partito?" avrebbero chiesto degli iscritti in una riunione. "Verrete espulsi dal sindacato", sarebbe stata la risposta; minaccia contestata apertamente ed in piena riunione da altri lavoratori che avrebbero rivendicato il pluralismo anche nel sidnacato.

Nel pomeriggio abbiamo un incontro infruttuoso ed a tratti irritante con tre grigi giornalisti di regime che con involontaria ironia si presentano dicendo "noi non siamo burocrati!" Si ha la sensazione che questi signori comincino a preoccuparsi del futuro del loro posto di lavoro e di potere, e sembrano ben determinati a non arrendersi ai cambiamenti.

Poi, in serata, abbiamo un secondo incontro ufficiale con il "partito democratico": parliamo dell'eventualità che da altri paesi europei o dal Parlamento europeo vengano inviati osservatori in occasione delle elezioni previste per il 10 febbraio 1991, dell'opportunità di rinviare quella data (che per l'opposizione verrebbe troppo a ridosso, senza la possibilità di farsi conoscere ed organizzarsi), e discutiamo delle loro (per ora scarsissime) possibilità di diffondere la loro voce e fornire informazioni alla popolazione, soprattutto delle campagna. Domandiamo anche se gli studenti abbiano già pensato di aprire una campagna di "alfabetizzazione" nei loro villaggi e nelle città di provincia da cui provengono, e riceviamo risposte incerte ed esitanti. Non si ricava l'impressione che questa neonata opposizione abbia già la stoffa di un'efficace alternativa. Riceviamo continui "appelli all'Europa". Con un certo orgoglio possiamo comunicare che grazie al nostro intervento il presidente del Parlamento europeo è riuscito a richiamare l'attenzione del vertice dei 12 sull'Albania e consegniamo il comunicato finale del Consiglio europeo, nella parte in cui parla dell'Albania. Insieme diamo loro anche i testi delle Convenzioni sui diritti dell'uomo e qualche statuto e programma di partito di altri paesi europei, dell'est e dell'ovest.

16 Dicembre1990, domenica

Questa volta partiamo senza il capo-protocollo del Parlamento, ma sempre con i nostri autisti ufficiali, ed andiamo a Shkoder (Skutari), dove vogliamo assistere alla Messa cattolica che dal 4 novembre 1990 viene celebrata ogni domenica, e da qualche tempo addirittura quotidianamente, come abbiamo appreso ancor prima di partire e sentito dire a Tirana da diverse fonti, comprese quelle ufficiali (che se ne vantavano, perché dimostrava il ripristino di una certa libertà religiosa). Lungo la strada osserviamo il paesaggio (molto bello, un po' desolato) ed un'infinità di animali vari: mucche, maiali, capre, asini, cavalli, muli, oche, tacchini, polli... Se ci fosse un Parlamento europeo degli animali ad inviare una delegazione in Albania, al ritorno gli osservatori probabilmente riferirebbero che gli animali in quel paese godono di una libertà che tutto il resto d'Europa può loro solo invidiare..

Vicino al paese di Bushet si intensificano, lungo la strada, le file di gente - vestita (poveramente) a festa - che cammina tutta nella stessa direzione. Ci fermiamo e chiediamo dove vanno: ci rispondono che vanno alla Messa, che si celebra anche in quel villaggio, ed in effetti vediamo qualche chilometro più in là, oltre il paese, una collina con una grande croce, dove - all'aperto - si svolge il culto cristiano. Al bivio una pattuglia della polizia, in macchina, che si limita ad osservare, senza ostacolare l'afflusso.

A Skutari si vede subito, appena entrati, una fila di vetrine spaccate, chiuse provvisoriamente col cartone. Vediamo che è piuttosto lesionata anche la stazione della radio ed un edificio del partito. Ci dirigiamo immediatamente al vecchio cimitero dove sappiamo che si celebrerà la Messa. La gente ci accoglie con grande gioia (salvo qualche diffidenza per la nostra vettura ufficiale), e con orgoglio ci viene subito mostrata la chiesa restaurata nelle settimane precedenti col lavoro volontario di moltissime persone. Ci viene raccontato che sono stati raccolti anche dei soldi, a questo scopo, e che qualcosa è stato dato anche ai musulmani per riaprire una moschea. L'altare è eretto all'aperto, verso il popolo, come su un palcoscenico. Il calice era stato serbato, per tutto il tempo della persecuzione, da una famiglia che per questo ha rischiato molto. La versione ufficiale, a proposito della religione, ci è stata raccontata pochi giorni prima dal Presidente della Suprema Corte: "nel 1967 il popolo, la gioventù (come quella che si muove oggi per le riforme) ha preteso la chiusura di tutti i luoghi di culto religioso; se ora il popolo, che ha chiuso le chiese, le vuole riaprire, sarà libero di farlo..."

Il messale è tutto sbrindellato e decisamente pre-conciliare, naturalmente. Le immagini sacre e le candele sono rimediate alla bell'e meglio, esiste qualche paramento per la Messa (in verde, e una tonaca bianca per il chierichetto). Tre sacerdoti si fanno riconoscere come tali: Zef Simoni (che avrà poco più di 70 anni), un francescano 86enne che si chiama p.Leo (dice di aver insegnato al liceo dei francescani a Skutari, prima della guerra) e Simon Jubani che si definisce "candidato dei gesuiti" ed ha passato 26 anni di galera e campo di lavoro forzato ("come Mandela", ci mormora qualcuno nell'orecchio, pretendendo per lui lo stesso rispetto che si deve al capo dei neri in Sudafrica). Anche gli altri due sacerdoti sono stati prigionieri per decenni.

L'impianto di amplificazione che permette a tutti di seguire la Messa è stato dato in prestito da un gruppo musicale. I sacerdoti prima della Messa invitano la gente a non fumare e mostrare rispetto, anche se non capiscono tutto (a noi poi diranno: "qui bisogna ripartire da una catechesi elementare, e molti dei presenti non sono cristiani; ma le famiglie cristiane hanno sempre battezzato i bambini, in clandestinità"). La Messa viene celebrata da Zef Simoni, il popolare Simon Jubani ne dirà un'altra alle 16 del pomeriggio. Nella predica si parla solo di argomenti religiosi, nonostante gli eventi dei giorni passati. Ad assistere alla Messa saranno 7-8000 persone, non viene distribuita la comunione. Qualcuno ci dice che la domenica precedente c'era stata molta più gente, e che forse serpeggiava un po' di paura.

Prima e dopo la Messa parliamo con i sacerdoti e con molta gente. Si nota una chiara divergenza nella lettura ed interpretazione dei fatti e sul da farsi. I preti, soprattutto Jubani (che poi andremo a trovare nella modestissima casa dei suoi cognati), chiamano alla calma e condannano nettamente i disordini e le violenze dei giorni precedenti - anche loro usano termini come "vandali" e "hooligani". Del resto dicono esplicitamente che una democratizzazione troppo veloce potrebbe avere gli stessi effetti come una pistola nelle mani di un bambino che non sa usarla. Ma i giovani che stanno intorno si fanno avanti per conto loro e dicono: "i preti devono parlare così perchè sono uomini di pace, ma la gioventú pensa che il più grande hooligan sia lo Stato, e che le manifestazioni di Skutari non possono essere viste come vandalismo. Senza un po' di hooliganismo non ci sarà democrazia..." E poi ognuno vuole raccontare ciò che ha visto: i manifestanti si sarebbero diretti contro la centrale del partito ed il "museo dell'ateismo", e solo dopo essere stati bloccati dalla polizia si sarebbero verificati atti violenti. E la dinamite, di cui effettivamente qualcuno ha fatto uso, non sarebbe stata impiegata contro negozi o edifici, ma per far saltare lo zoccolo del busto di Enver Hoxha - dopo averlo tirato giù con una corda "ed avergli pisciato sulla testa" (come ci viene ripetuto più volte da diverse persone durante la Messa, con grande soddisfazione). Si parla di molti arresti (2-300, qualcuno dice 1000), di 17 morti (qualcuno sostiene che della dinamite sia esplosa anche all'interno della sede della polizia, dopo gli arresti, ed abbia fatto una strage) e di parecchi feriti gravi. E' difficile sapere se tutto ciò corrisponda alla realtà o meno: ci viene dato un elenco di feriti e con i nomi di 40 arrestati, ma nessun elenco dei morti. Un giovane mi consegna una camicia insanguinata che mi chiede di portare all'estero come testimonianza, un altro mi dà una pellicola di fotografie da sviluppare.

E' assai difficile trovare il modo più giusto e responsabile per reagire (soprattutto dopo quanto è avvenuto un anno prima in Romania!), e così decido di passare la lista dei nomi agli studenti di Tirana, e ad informarne le 4 ambasciate della C.E.

Nella seconda conversazione con don Jubani - alla quale esplicitamente non vuole che partecipino i giovani, mentre vi assistono due giornalisti italiani - il vecchio sacerdote esprime nuovamente idee molto nette e ferme, con l'autorità e la sicurezza (quasi anche l'impudenza) che gli derivano dalla sofferenza, dalla prigionia e dalla tortura: "io non ho più nulla da temere, se prima sono stato una volta sacerdote, ora lo sono cento volte, e non guardo in faccia a nessuno". Condanna e vorrebbe moderare ogni genere di radicalismo, ripete la sua relativa fiducia in Ramiz Alia, al quale per il momento non vede alternative. Non si pronuncia sugli scontri e sulla repressione, minimizza e tende a smentire, ed è comunque assai preoccupato che tutto degeneri in violenza. Non si mostra entusiasta del nuovo partito democratico, sembra preferire l'idea che presto debba nascere un partito democristiano (di cui durante la Messa ci hanno parlato alcuni giovani cattolici) e non ha paura di eventuali tensioni o integralismi religiosi in un paese con il 70% di musulmani e con i cristiani divisi tra cattolici ed ortodossi.

La sua visione degli sviluppi in Albania è orientata al lungo periodo: per lui i turchi, i serbi, i russi ed i cinesi hanno - in ordine temporale - rovinato il popolo albanese, ed il comunismo lo vede come una specie di peccato collettivo, dovuto non tanto ad un dittatore, quanto alla viltà ed all'incapacità degli intellettuali non-comunisti che avrebbero lasciato ai comunisti il monopolio della resistenza. Per aprire un nuovo capitolo nella storia albanese occorrono innanzitutto il timor di Dio ed una nuova educazione. Gli domandiamo, tra l'altro, un parere sullo scrittore Ismail Kadaré che poche settimane fa ha scelto l'esilio volontario: come altri nei giorni precedenti, anche lui non vede in Kadaré una credibile alternativa al regime, e questo non tanto per la sua fuga in un periodo cruciale (che lui, anzi, ritiene orchestrata dal regime), quanto perchè lo ritiene culturalmente troppo omogeneo al comunismo albanese. Non si vuole esprimere su cosa lui si aspetta dal Papa ("non devo io insegnargli nulla, lo sa bene lui") e si mostra fiducioso sul futuro del cristianesimo in Albania; dice che i preti cattolici attualmente sarebbero probabilmente 32, e che al sud c'è anche un certo risveglio ortodosso; non ritiene probabile la nascita di un fondamentalismo islamico.

Dalla lunga conversazione con questo sacerdote, ed anche da osservazioni di alcune altre persone a Skutari, mi si rafforza l'idea che per molti la fede religiosa sia vista come una sorta di affidabile cartina di tornasole per distinguere chi è autonomo dal regime e dalla sua cultura, e chi no; uno spartiacque tra opportunisti ed autentici oppositori. (Poi sapremo da altra fonte che nel sud del paese si sono verificate alcune liturgie ortodosse, che si sarebbe fatto vivo un "pope", e che anche tra i musulmani vi sarebbero manifestazioni di religiosità.)

Il pomeriggio e la sera andiamo a trovare diverse famiglie albanesi nelle loro case (assai modeste): cosa impensabile, anche questa, sino a pochi giorni fa. "Sappiamo che domani in fabbrica ce ne chiederanno conto, ma ora non abbiamo più paura", ci dicono gli uomini, mentre le donne appaiono meno convinte di tanta spavalderia. "Da domani la TV albanese sposterà un suo canale, così si potrà vedere meglio RAI-1, forse preferiscono che la gente stia in casa a vedere la TV che a stare in giro per le strade a manifestare", ci dicono. Ed in piazza, a Tirana, vediamo un "taze-bao" scritto a mano che annuncia la costituzione di un partito ecologista. Pur sforzandoci, non riusciamo a saperne di più, e non vi è alcun nome o recapito.

Voci riferite in una conversazione parlano anche dell'eventualità che possa sorgere, nel sud, un partito della minoranza greca, e - soprattutto - un "partito dei contadini" nelle campagne, ove vive oltre il 60% della popolazione. Mi ritorna in mente un'osservazione di studenti ascoltata durante la seconda grande manifestazione, in occasione della nascita del partito democratico. Avevo chiesto se prevedevano la costituzione di altri partiti, ed avevano risposto: "perchè no? purché siano democratici.."

17 Dicembre 1990, lunedì

Ormai è difficile ed un po' doloroso lasciare questo paese e questo popolo di cui abbiamo condiviso una settimana cruciale. Una studentessa ci dice con le lacrime agli occhi: "ora che non ci sarete più, ci sentiremo meno protetti". Tutti vorrebbero affidarci dei piccoli incarichi e commissioni, ed essere soprattutto sicuri di non venire dimenticati.

L'addetto stampa del nuovo partito (Genc Pollo, un giovane molto preparato che aveva partecipato qualche mese prima ad un incontro dei verdi a Vienna) ci assicura che ora il riconoscimento legale del nuovo partito è alle porte e si mostra scettico sulle notizie così tragiche da Skutari. Per strada incontriamo anche il prof. Paschko, ormai con l'aria indaffarata ed importante del politico.

In un'ultima seduta con i 4 ambasciatori compiamo un esame conclusivo comune della situazione: c'è accordo che oramai in Albania un nuovo fiume si è aperto un varco, e non potrà essere ricacciato indietro. Tutti riconoscono che le condizioni per un ampio dialogo nel paese non sono cattive, e che la Comunità europea vi può dare un importante contributo. L'Albania non merita di essere isolata dall'Europa: nè a livello ufficiale, nè a livello della società civile. Tutti sono assai consapevoli che un "pericolo rumeno" può essere incombente: sia nel senso del bagno di sangue, sia nel senso di una selva di mini-partiti che in fondo garantiscono la continuità trasformista delle vecchie strutture. E c'è anche un certo consenso sull'esigenza che la C.E. ora si interessi attivamente e presto dell'Albania - solo uno dei quattro ambasciatori appare più scettico.

19 Dicembre1990, mercoledì

Ho la fortuna di poter riferire, a caldo, alla Commissione Politica del Parlamento europeo, a Bruxelles, sulla mia visita in Albania. Tutto appare già un po' più lontano: a noi viene servito caffè o thé, e l'Albania è un punto all'ordine del giorno, insieme a molti altri. Ma parecchi colleghi ascoltano con un'attenzione e simpatia che non è di routine, e testimonia della loro consapevolezza che stiamo trattando di un importante cambiamento in corso verso il quale abbiamo una responsabilità e delle opportunità da giocare.

Nella stampa si parla della repressione e dei processi per "vandalismo", e di 300 arrestati.

Poche ore dopo ricevo una insperata telefonata da Tirana: gli studenti comunicano che il nuovo partito è effettivamente legalizzato, e che dispongono di un telefono, anche per chiamare all'estero. E che sabato (22-12) faranno una nuova manifestazione, di contentezza per gli sviluppi in corso e per chiedere l'amnistia per i processati. Un'altra fonte ci conferma che ci sarà la prevista Messa nella notte di Natale a Skutari. Io, a mia volta, sono lieto di poter comunicare che sabato anche a Roma si svolgerà in solidarietà un sit-in di studenti davanti all'ambasciata albanese...

 

 

Pubbicato come diario quotidiano su Il Manifesto fino al 19 Dicembre,1990;  in Linea d'ombra, aprile 1991

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19 Luglio, 2015

 

Al culmine della paranoia per l’invasione da parte di un imprecisato nemico straniero, l’Albania comunista degli anni settanta si riempì di centinaia di migliaia di bunker. Costruiti in cemento armato e capaci di ospitare al loro interno tre, quattro, cinque persone si diffusero come un’epidemia in tutto il paese. Furono costruiti con l’aiuto della Cina, ai bordi delle periferie cittadine, lungo le strade e i sentieri di campagna, nei villaggi di montagna e in quelli di pianura, vicini alla costa adriatica. A quei tempi era molto nota la massima del dittatore albanese Enver Hoxha: “Tutto il mondo deve sapere che in Albania e in Cina vive un miliardo di comunisti”.

Il “processo di bunkerizzazione” voluto dallo stesso dittatore rispondeva alla “necessità prioritaria” di difendersi da un imminente attacco dell’imperialismo occidentale (in primo luogo dell’Italia, che durante il fascismo aveva occupato il paese) o del cosiddetto blocco socialimperialista, (cioè i paesi dell’Europa orientale aderenti al patto di Varsavia e legati all’Unione Sovietica).

Oggi simili definizioni possono far sorridere. Ma c’è stato un periodo, negli anni settanta e ottanta del secolo scorso, in cui un piccolo paese balcanico fu letteralmente segregato all’interno dei suoi confini. Negli stessi anni in cui la stesura della nuova costituzione albanese sanciva l’istituzione dell’ateismo di Stato, Hoxha decise di interrompere qualsiasi relazione con l’esterno nell’intento di preservare il suo piccolo paradiso socialista dalla pur minima influenza straniera.

Dopo aver rotto con l’occidente e la confinante Jugoslavia di Tito, ruppe nei primi anni sessanta anche con l’Urss di Chruščëv e i paesi dell’est perché ritenuti troppo riformisti. Dopo la breve fase maoista, alla metà degli anni settanta si affievolirono le relazioni con la stessa Cina che aveva abbandonato la “rivoluzione culturale” e si era avviata, dopo la morte del grande timoniere Mao Tse-tung, verso le riforme di Deng Xiaoping.

 

Ossessione a parte, il “processo di bunkerizzazione” ebbe l’effetto pratico di ricordare, ogni giorno, a un intero popolo di tre milioni di abitanti di essere finito all’interno di un immenso gulag. Dopo la caduta del regime, nel 1991, i bunker furono presi a picconate. Furono ridotti in macerie non solo per cancellare il segno più tangibile della passata oppressione, ma soprattutto per estrarre l’acciaio contenuto nelle loro pareti.

Anno dopo anno, quelle centinaia di migliaia di casupole dal tetto tondeggiante sono scomparse dalle città e dai villaggi albanesi, dalle montagne e dalle coste. In tutta la capitale se ne conserva solo uno, a futura memoria, davanti al palazzo del governo. Sorge in mezzo a un’aiuola verde e nel caos del traffico cittadino sembra essere stato scaraventato lì da un’altra galassia.

 

In quei sei anni fu scavata una sorta di piramide egizia che avrebbe riprodotto, in un mondo rovesciato, la struttura portante del potere albanese

 

Il Grande Bunker

 

Se il popolo avrebbe potuto trovare riparo nei bunker lillipuziani disseminati in ogni strada o viottolo di campagna, la nomenclatura stretta intorno alla guida del partito avrebbe trovato invece la sua salvezza nel Bunker, quello con l’iniziale maiuscola. Poche cose come la storia della sua costruzione rendono l’idea dell’intreccio tra paranoia, megalomania sfrenata e terrore ideologico che ha stretto a sé l’Albania degli anni settanta.

Il Bunker fu costruito tra il 1972 e il 1978. Ma non fu edificato alla luce del sole, né sarebbe stato la versione gigante dei piccoli bunker per la gente comune.

Fu scavato sotto una delle ripide colline che dividono la città di Tirana dal monte Dajti alle sue spalle. A differenza di tutti gli altri, che erano sostanzialmente dei presidi difensivi a prova di bombardamento, il Bunker fu pensato come un vero rifugio antiatomico in grado di ospitare – sotto il manto verde che cinge le estreme propaggini della città – tutti membri del politburo, i deputati dell’assemblea del popolo, i vertici delle forze armate.

In quei sei anni la dirigenza fece scavare una sorta di piramide egizia sotto i piedi della montagna. Tremila metri quadri di stanze, cunicoli, corridoi, sale, appartamentini divisi su cinque piani e tesi a riprodurre – in quel mondo rovesciato e asfittico – la struttura portante del potere albanese. Al vertice del Bunker, come una sorta di occhio di dio degli abissi ci sarebbe stato infatti l’appartamento riservato al dittatore Enver Hoxha. Al di sotto, quello riservato a Mehmet Shehu, il delfino. E così via, di carica in carica. L’idea non era solo quella di salvaguardare l’esistenza di un ceto dirigente, ma permettergli di continuare a operare, per mesi o per anni, lontani dal sole e dall’aria fresca, secondo le sue rigide e invariate geometrie. Una specie di Underground ante litteram, pienamente realizzato.

L’idea sarebbe stata di un gruppo di generali che avevano visitato un rifugio antiatomico costruito in Corea del Nord.

Il Bunker fu inaugurato alla fine degli anni settanta, ma pare che Enver Hoxha non abbia mai dormito al suo interno. Neanche per una sola notte. Nell’arco di tredici anni, fu usato solo per alcune esercitazioni dell’esercito.

Poi, alla caduta del regime nel 1991 (Hoxha era già morto nel 1985), il Bunker fu sigillato come una vecchia cantina. Chiusero la porta d’accesso in cemento armato, spessa oltre un metro, e quel sottomondo coreano a due passi dall’Adriatico piombò nell’oscurità più assoluta.

Poco alla volta se ne dimenticarono tutti, anche chi aveva occupato le nuove stanze del potere negli anni della transizione postcomunista. Per oltre vent’anni il Bunker è rimasto come congelato, senza che nessuno ci mettesse piede.

Ora è stato restaurato, trasformato in una sorta di monumento al totalitarismo e aperto al pubblico per un numero limitato di giorni tra il novembre e il dicembre del 2014 e durante il recente festival delle arti, Tirana Open, in attesa che l’esposizione diventi permanente. Lo hanno ribattezzato Bunk’Art.

Ho potuto visitarlo nei giorni del festival che si è tenuto a maggio, insieme a un gruppo di scrittori e artisti invitati alla rassegna.

In auto ci si mette circa un quarto d’ora dal centro della città. Subito dopo le ultime case di periferia, la strada si inerpica lungo la collina. Poi comincia la zona militarizzata, l’ultimo tratto l’abbiamo percorso a piedi. Per raggiungere l’ingresso del Bunker abbiamo dovuto superare due posti di controllo dell’esercito.

 

Dentro il Bunker

 

La porta d’accesso spunta all’improvviso dietro gli alberi, aperta su una parete verticale di tufo scurito.

Una volta dentro, dopo aver oltrepassato due piccole stanze in cui erano installate le docce che avrebbero dovuto purificare i membri del politiburo dalle radiazioni, si è subito risucchiati da un lungo corridoio che corre dentro la collina. Alto, stretto, illuminato da una luce innaturale. I muri sono bianchissimi. “Sono stati riportati al bianco originario”, dice la guida, un ragazzo robusto, dai capelli castani tagliati a spazzola e la voce squillante. Parla un italiano fluente.

Lungo la parete del primo corridoio la scritta Bunk’Art è seguita da un logo: un mezzo cerchio che racchiude tutti i colori dell’arcobaleno con al centro una stella rossa.

Più o meno a metà del corridoio, entriamo nell’appartamento di Enver Hoxha, rimasto praticamente identico a quando il Bunker fu ultimato nel 1978.

Le stanze per il dittatore sembrano essere state concepite come un punto medio tra un rifugio di guerra spartano (quale effettivamente doveva essere) e un appartamentino piccoloborghese arredato nello stile della vecchia Repubblica Democratica Tedesca (a cui si rifaceva probabilmente l’immaginario dei suoi architetti).

In caso di attacco termonucleare, la prima stanza sarebbe stata riservata al suo segretario personale. Si sarebbe seduto davanti a un piccolo tavolino con un enorme telefono nero, con il quale avrebbe potuto chiamare non si capisce chi, dal momento che tutto il gruppo dirigente del partito sarebbe stato interrato lungo i cinque piani sotterranei.

Subito dopo ci sono le due stanze private del dittatore. I pavimenti sono rossi. Nella prima, la più grande, spuntano due poltroncine squadrate, tappezzate di stoffa rosa, rossa e beige, davanti a un tavolino spesso di legno marrone scuro. Sopra è adagiato un posacenere di vetro dozzinale. In fondo alla stanza ci sono una scrivania dello stesso legno e dello stesso colore del tavolino, e una poltrona più o meno simile a quelle del piccolo salotto, ma più scura, quasi color vinaccia, e più imbottita.

Sulla parete più vicina alle poltrone e alla scrivania è stata attaccata una cartina geografica dell’Albania alta due metri e larga uno. Davanti all’altra è stata posta una piccola libreria con le ante di vetro. Ci sono solo due volumi dalla copertina rigida che raccolgono le traduzioni in albanese delle tragedie di Shakespeare. Pur chiedendolo alla guida che ci accompagna, non sono riuscito a capire se quei libri erano stati voluti dallo stesso Hoxha o siano stati messi lì a caso.

Sopra la piccola libreria è appeso un ritratto in bianco e nero del dittatore ai tempi della guerra partigiana che liberò il paese dall’occupazione nazista. La cravatta e la camicia bianca sotto la divisa militare, i capelli corti pettinati all’indietro sulla faccia rotonda, lo sguardo fisso in macchina. È ancora molto giovane. La foto è stata scattata almeno tre decenni prima dell’ideazione del Bunker, quando un Hoxha ormai invecchiato e roso da mille sospetti si avviava ai suoi ultimi anni di vita.

La stanza in fondo è occupata da un letto a due piazze coperto da una trapunta rossa e da un piccolo comodino accanto al lato destro.

Le pareti dell’intero appartamento sono ricoperte da un sottile strato di legno giallognolo. In un angolo della seconda stanza lo strato è stato eliminato per permettere ai visitatori di vedere di che impasto era fatto il guscio che avrebbe dovuto proteggere il padre della nazione. “Un misto di cemento, piombo e vetro, in grado di arginare le radiazioni”, dice la guida con lo sguardo serio, come se un attacco di simili proporzioni potesse realizzarsi da lì a poco.

Usciti nuovamente nel corridoio, ci addentriamo nelle viscere del Bunker. Le stanze che si susseguono, un centinaio in tutto, appaiono più piccole. Per la mostra sono state riempite di foto, cartine del paese e cimeli d’epoca che ricordano le varie fasi della storia nazionale: l’indipendenza dagli ottomani, l’occupazione fascista e nazista, la guerra di liberazione, la dittatura comunista.

Nelle stanze riservate al fascismo, a parte la vecchia insegna di una strada della capitale su cui è scritto “Rruga Konti Çiano” (via Conte Ciano), ci sono alcune bandiere dell’Albania fascista: l’aquila bicipite su sfondo rosso è circondata da due fasci di combattimento.

 

Tutto è scarno, semplice, austero, oltre che lievemente surreale. Ma il pezzo forte è la sala riservata all’assemblea del popolo.

 

Nelle stanze riservate alla guerra partigiana, sono invece esposte alle pareti decine di foto degli eroi della resistenza, in gran parte mandati in un gulag o davanti a un plotone d’esecuzione dallo stesso Hoxha molti anni dopo aver consolidato il suo potere, se non erano stati a loro tempo fucilati dai fascisti o dai nazisti.

Tra queste spunta anche un ritratto di Nexhmije Xhuglini, la compagna e poi moglie del dittatore, e secondo molti la vera mente del regime, specie negli anni di demenza senile di Hoxha e subito dopo la sua morte avvenuta nel 1985.

Ma nella foto che la ritrae alla metà degli anni quaranta è solo una bellissima ragazza dai capelli scuri, le labbra carnose e lo sguardo velato da un misto di tristezza e orgoglio, in tutto e per tutto simile a tante ragazze che come lei sono salite sui monti in Italia o in Jugoslavia durante la guerra partigiana.

Dopo una serie interminabile di stanze, cunicoli e nuovi corridoi, scendiamo al piano inferiore al precedente ed entriamo in un altro piccolo appartamento identico a quello di Enver Hoxha. La prima impressione è quella di essere ritornati al punto di partenza, in un gioco di specchi in cui ogni stanza è apparentemente uguale a se stessa, salvo piccolissime differenze, come in un film di David Lynch.

Le poltrone sono simili, anche se tendono al verde e sono meno imbottite. Il tavolo della scrivania marrone è lo stesso di Hoxha, e così il ritratto del dittatore che questa volta troneggia alle spalle della scrivania e non sopra l’ultimo scaffale della libreria. La camera da letto è identica. Identico il comodino, identica la spalliera. Cambia solo il colore della trapunta, questa volta è blu.

“Questo era l’appartamento di Mehmet Shehu”, tuona la guida alle mie spalle. È quasi sovrapponibile al precedente, anche se penso subito all’effetto che avrebbe potuto avere sul delfino in clausura guardare fisso negli occhi, in ogni istante, il ritratto del padre-padrone della rivoluzione. “L’unica cosa che cambia è il materiale utilizzato per proteggere le sue stanze. Le pareti dell’appartamento di Mehmet Shehu sono fatte solo di cemento. Non ci sono il piombo e il vetro.”

Effettivamente mi rendo conto che sono proprio le pareti a costituire la grande differenza tra i due appartamenti: queste sono ricoperte da fascine di legno scuro verticali, mentre nell’altro un sottile strato giallognolo copre il diaframma ultraresistente a ogni radiazione. Un po’ come nella Fattoria degli animali di George Orwell, tutti i membri del politburo sono uguali, ma alcuni sono più uguali degli altri.

Scendiamo di un altro piano. Dopo altre stanze occupate da vecchi aggeggi radio che avrebbero dovuto stabilire le comunicazioni con l’esterno, arriviamo a una sorta di slargo interno.

È la mensa del rifugio. Ci sono tavoli e panche di fòrmica e, sul lato più lungo, un bancone d’altri tempi in legno chiaro protetto da un vetro. In alto appare la scritta in stampatello, Bufe. Buffet.

Tutto è scarno, semplice, austero, oltre che lievemente surreale. Ma il pezzo forte dell’esposizione, ancora più dello stesso appartamento del dittatore, è costituito dalla sala riservata all’assemblea del popolo.

Vi si accede al terzo piano sotterraneo e, dopo aver percorso l’ultimo stretto corridoio, sembra maestosa. Sarà profonda una trentina di metri. Il pavimento è inclinato verso il basso, e il soffitto è alto almeno otto, nove metri. Più che un’assemblea legislativa scavata sotto la roccia, pare un teatro: le poltroncine rosse sono disposte geometricamente lungo una decina di file orizzontali. Fronteggiano un piccolo palco, sul quale avrebbero potuto prendere posto i membri della segreteria politica del Partito del lavoro.

È questo il vero cuore del Bunker. L’idea che lo sorregge è molto semplice: non occorre solo interrare i vertici del partito, dell’esercito e dell’assemblea, dargli delle stanze e un bufe dove alimentarsi; il fine ultimo è ricreare un vero e proprio parlamento sotterraneo, in cui continuare a riunirsi, sentire i discorsi pronunciati dalla tribuna posta sul palco, annuire, applaudire, unirsi agli slogan di lode al compagno Enver Hoxha o al partito, temere le conseguenze dell’ennesima purga.

Una volta all’aria aperta, mi coglie un senso di liberazione. Non è solo una reazione fisica ai corridoi chiusi e alla luce artificiale. Ho come la sensazione che, stanza dopo stanza, una patina acida si sia sedimentata sui vestiti. Anche la collina verde e disabitata che copre il Bunker mi appare ora irreale, fuori dal tempo, irrimediabilmente mutata. Solo incontrando il frastuono della strada che attraversa la periferia sembra di essere tornati davvero sul pianeta Terra.

Il rapporto con il passato

 

Il fatto che il Bunker sia stato riaperto ora, dopo essere rimasto chiuso per circa venticinque anni, è il segno che qualcosa sta cambiando nel profondo della società albanese. Non è solo merito del ministero della cultura e del ministero della difesa del nuovo governo di Edi Rama, che hanno fortemente sostenuto il progetto.

Solo dieci anni fa un’operazione del genere sarebbe stata letteralmente impensabile, perché ancora molto complicato, per niente pacificato, era il rapporto con il passato totalitario e soprattutto con la folta schiera di suoi rappresentati trasmigrata nelle istituzioni democratiche.

L’apertura del Bunk’Art, insieme a una serie di iniziative culturali più o meno appariscenti, segna forse l’avvento di una nuova epoca.

È difficile spiegare a chi non c’era come si viveva sotto il totalitarismo. Chi ha avuto la fortuna di non viverlo, difficilmente riuscirà a capire quel particolare miscuglio di repressione e sospetto, generato dalla retorica dominante, dal culto del capo, dalla politicizzazione esasperata della società e allo stesso tempo dal terrore della delazione o di un arresto, dalla paura che la propria vita e quella dei propri famigliari possano andare in fumo dall’oggi al domani… Chi c’era, d’altro canto, difficilmente troverà le parole per farlo, e per rivelare l’essenza di ciò che ha tenuto in piedi quei regimi: non solo il culto del capo e l’efficienza delle polizie segrete, ma anche il consenso della “zona grigia”, del “ventre molle” del paese, finché tutto non è venuto giù.

È avvenuto nelle società postotalitarie uscite dai regimi fascisti, e nei paesi dell’Europa dell’est dopo la caduta del muro di Berlino. È accaduto anche in Albania.

Eppure il rapporto del piccolo paese balcanico con il suo passato totalitario ha assunto un carattere particolare, tale da rendere la sua transizione in parte diversa da quelle degli altri paesi dell’est.

Pur nelle analogie con il panorama totalitario e postotalitario descritto da Václav Havel, Adam Michnik, Norman Manea, Herta Müller eccetera, c’è una specificità albanese che va ancora indagata. Essa nasce innanzitutto dalle peculiarità dell’ultrastalinismo albanese, un regime rimasto pressoché immobile, bloccato, fino alla fine degli anni ottanta.

Come già accennato, al di là dei turbolenti rapporti con Belgrado, le strade dell’Albania e degli altri paesi allora aderenti al patto di Varsavia si separarono ai tempi della destalinizzazione e del ventesimo congresso del Partito comunista dell’Unione Sovietica, il Pcus, nel 1956. Fu allora che Enver Hoxha e i vertici del partito decisero di rompere con l’Urss accusando Chruščëv di revisionismo e di essersi allontanato dalla strada maestra tracciata da Stalin. Tale mossa condannò il paese all’isolamento; ma oggi va forse ricordato che a tale isolamento indirettamente contribuì anche la sinistra filosovietica occidentale (e, in particolare, quella italiana) che, per fedeltà a Mosca, voltò le spalle all’Albania.

L’isolamento fu quindi il prodotto di un reciproco voltarsi le spalle sullo scacchiere ideologico, più che strettamente geopolitico. Le sue conseguenze trasformarono l’Albania in un paese chiuso in sé, che trovò come unica alleata la Cina della rivoluzione culturale, prima che, verso la seconda metà degli anni settanta anche i rapporti tra Cina e Albania cominciassero a raffreddarsi, per interrompersi definitivamente dopo la morte di Mao, nel 1976.

Da allora, fino al crollo del regime nel biennio 1990-91, l’Albania fu difatti una prigione a cielo aperta edificata intorno al culto del capo, Enver Hoxha, che morì solo nel 1985.

Nel film Enveri Yne, realizzato negli ultimi anni di vita della dittatura comunista è possibile osservare, oltre che i canoni estetici dell’ideologia ufficiale, le immagini dei funerali del leader: un paese intero letteralmente si blocca (o, più precisamente, è costretto a bloccarsi per ordini dall’alto) per rendere omaggio al “compagno Enver”. Sembrano immagini degli anni trenta o cinquanta del novecento: sono state girate quattro anni prima dalla caduta del muro.

Intorno alla metà degli anni settanta, proprio quando era in costruzione il Bunker, si abbatterono sull’Albania (e sugli stessi vertici del partito fino allora rimasti fedeli alla guida) una serie di purghe. Non che a Tirana fosse presente una vera dissidenza come a Praga o a Danzica o a Budapest. Semplicemente Hoxha mandò al gulag, o davanti al plotone di esecuzione, coloro che in futuro avrebbero potuto minare il suo potere.

Una delle rare testimonianze di quelle purghe, disponibile in lingua italiana, è il Diario di un intellettuale in un gulag albanese di Fatos Lubonja pubblicato dalla casa editrice calabrese Marco. Nel memoir di Lubonja il racconto della prigionia (dei lavori forzati, dell’annullamento delle proprie vite, della solidarietà tra detenuti politici) si mescola ai ricordi degli anni che hanno preceduto il suo arresto. Lubonja ha scontato 17 anni di carcere, di cui molti nel gulag di Spaç: oltre che essere il figlio di Todi Lubonja, direttore della tv di stato considerato troppo “liberale”, la sua unica colpa è stata quella di aver elencato nei suoi diari privati, nascosti in soffitta, alcune critiche al regime.

Sono tante le vite che si sono spezzate negli anni del carcere, dei lavori forzati, del confino nei villaggi di montagna. Tanti i suicidi, tanti i crolli psicologici. Quasi sempre i “nemici del popolo” erano uomini e donne che avevano fortemente creduto nel partito. E questo, in fondo, è stato il più grave fallimento del socialismo reale: aver distrutto la stessa base che lo aveva realizzato, e aver eliminato sistematicamente tutti coloro che avrebbero potuto contribuire alla sua trasformazione.

A venticinque anni dal crollo, l’Albania contemporanea sembra costruita urbanisticamente, socialmente, culturalmente sulla totale negazione di quel passato, tanto che viene costantemente da chiedersi, ogni volta che si attraversano le strade della capitale, come sia elaborato il suo ricordo.

In tv trasmettono documentari storici, sui giornali si rievocano gli eventi della lotta partigiana e del vecchio regime, spesso sulle terze pagine si parla del dittatore di ieri e dei suoi familiari con la stessa deferenza di un tempo. Ma è difficile capire quanto tutto ciò sia materia di una indagine storica accurata, capace di individuare le cause, i processi, le concatenazioni, al di là delle “colpe” di questo o di quello, spesso utilizzate strumentalmente nell’agone politico.

Già all’indomani della caduta del regime (di fronte al solito dilemma tra epurazione e amnistia), Lubonja scrisse che sarebbe stato impossibile applicare alla lettera il diritto, riparando ogni torto subìto. L’Albania si sarebbe trasformata in un tribunale e le carceri si sarebbero riempite di un numero di detenuti maggiore che ai tempi di Hoxha. Ciò sarebbe stato inevitabile in un paese totalmente inglobato nella dittatura…

Oggi che la politica sembra aver archiviato la stagione di Sali Berisha (l’uomo forte della transizione, il fondatore del Partito democratico), e che il paese ha ottenuto lo status di candidato all’ingresso nell’Ue, sembra cominciata una nuova stagione. Mentre la scelta tra amnistiare o emendare è rimasta sostanzialmente in sospeso, si è creata una frattura generazionale.

Chi oggi ha vent’anni inevitabilmente è venuto dopo. È nato dopo l’abbattimento della statua di Enver Hoxha in piazza Skanderbeg il 20 febbraio del 1991, evento che segnò la caduta del regime.

È nato dopo l’approdo della Vlora nel porto di Bari nell’agosto dello stesso anno, culmine dell’esodo verso le coste italiane rievocato nei film La nave dolce di Daniele Vicari e Anija di Roland Sejko. Per questo, nel dialogo tra chi ha vissuto il “prima” e chi è nato “dopo”, diventa cruciale imparare a maneggiare la consapevolezza storica.

 

Un nuovo festival

 

A maggio, negli stessi giorni in cui ho potuto visitare il Bunker, si è svolto il Tirana open, festival di arte, cinema, teatro, musica, letteratura, che ha popolato una serie di palazzi ubicati nella zona dell’università e dell’accademia delle arti, cioè in quella parte della capitale che, ideata dal fascismo, riproduce l’Eur di Roma in scala ridotta, con i suoi colonnati bianchi e il suo razionalismo, poi rielaborato dallo stesso regime comunista.

La consapevolezza che sia del tutto inevitabile, oltre che necessario, fare i conti con le macerie della storia emerge già nell’incipit del testo di presentazione del festival, scritto dai direttori Helidon Gjergji, Vladimir Myrtezai-Grosha e Arlinda Dudaj:

 

Tirana, vecchio centro romano, avamposto ottomano, archetipo del Novecento italiano, sogno utopico del fascismo, esempio di brutalismo staliniano e infine modello di una (non) architettura contemporanea impazzita, appena bilanciata da un’impressionante forma di sviluppo urbano alternativo, ha storicamente e simultaneamente abbracciato tutto questo, ma non si è mai innamorata di nessuna delle sue facce in particolare.

 

In questo crocevia di pluralità storiche e urbanistiche, l’obiettivo di molti scrittori e artisti dell’Albania contemporanea non è solo quello di essere consapevoli di dove si mettono i piedi quando si cammina per le strade della città, ma anche quello di provare a creare, all’interno degli anfratti che si aprono ai bordi di quelle medesime strade, delle piccole isole libere che si sottraggano a quella che Gjergji, Myrtezai-Grosha e Dudaj definiscono una “(non) architettura contemporanea impazzita”.

Oggi sul banco degli imputati c’è lo stravolgimento urbanistico della città. Il superamento delle “scatole di fiammiferi” ha spesso coinciso con la costruzione di case su case, palazzi su palazzi, in barba alle regole più elementari. Ora, per molti, è arrivato il tempo non solo di emendare gli scempi maggiori, ma di convivere diversamente con molti dei relitti di ieri che continuano a galleggiare nel nuovo tessuto urbano.

 

Sotto la piramide

 

Lungo il boulevard dei Martiri della Nazione che taglia in due la capitale sorge la piramide di Enver Hoxha, un mausoleo di vetro e marmo bianco a base decagonale eretto nella seconda metà degli anni ottanta in onore del dittatore appena scomparso.

La piramide ha avuto pochi anni per rendergli onore, dal momento che il regime cadde nel 1991. Durante la transizione è stata aperta al pubblico solo in rare occasioni. Per il resto è rimasta in balia del degrado e delle scritte con le bombolette spray. Come spesso accade ai monumenti che evocano esplicitamente il passato dittatoriale, è stata al centro di un acceso dibattito intorno alla sua rimozione. C’era chi avrebbe voluto abbatterla e chi invece avrebbe voluto mantenerla come opera architettonica novecentesca, al pari delle altre raccolte intorno al boulevard.

Alla fine la piramide è rimasta lì.

Nei giorni del Tirana Open è stata nuovamente aperta al pubblico. Ha ospitato nelle sue viscere diverse videoinstallazioni e, la sera, alcuni concerti. Come mi ha fatto capire proprio Helidon Gjergji, uno dei direttori del festival, la domanda essenziale di fronte a un ex mausoleo non è se rimuoverlo o mantenerlo intatto, ma come riutilizzarlo.

Così, sollecitato da Helidon, ho provato a capire come lo stessero riutilizzando loro, andando a vedere il concerto dei Gipsy Groove che si teneva al suo interno.

I Gipsy Groove sono una band kosovara molto nota nei Balcani. La sera del concerto hanno attirato centinaia di persone e in poco tempo hanno infiammato la piramide. Quando sono entrato nel ventre del mausoleo, davanti al piccolo palco, c’era una selva di ragazzi e ragazze, intorno ai vent’anni, che ballavano, fumavano, bevevano, ridevano, cantavano sudati, in tutto e per tutto simili ai loro coetanei che affollano i locali underground o i posti occupati delle altre metropoli europee.

C’erano però due differenze essenziali. La prima è che eravamo appunto dentro la piramide di Enver Hoxha. La seconda è che i Gipsy Groove suonano soprattutto musica romanì – la musica dei rom – mescolata a ska, reggae, funk, dnb…

Quando hanno attaccato le loro versioni di Ederlezi, e soprattutto di Opa cupa, la piramide si è trasformata in una bolgia da cui è stato impossibile non farsi trascinare.

Ho cominciato a ballare anch’io. Istintivamente, mentre saltellavo sotto le volte, mi è venuto da pensare che lì, in quel momento, la Storia aveva ormai macinato chilometri e chilometri. Una scena del genere non solo sarebbe stata letteralmente impensabile trent’anni fa, quando la piramide fu costruita. Sarebbe stata inimmaginabile anche soli quindici anni fa, al tempo della guerra del Kosovo. Durante le violenze commesse dai paramilitari serbi, e culminate con la deportazioni di migliaia di civili albanesi-kosovari, la gran parte dei rom fu percepita come filoserba. Per lo stesso motivo, dopo la fine del conflitto, molti di loro furono costretti a lasciare il Kosovo. Visto il particolare legame tra Pristina e Tirana, le tossine della guerra e del dopoguerra hanno contagiato parte della stessa società albanese e dei suoi discorsi.

Quella bolgia festosa e giovanissima stava demolendo tutto ciò ballando sulle note di una canzone romanì. Ho detto a Helidon, che canticchiava a pochi metri da me, che tutto questo aveva il sapore di una rivoluzione culturale. Mi ha risposto ridendo che ero forse l’unico, lì sotto la piramide, a essersi reso conto di un simile cortocircuito. “I ragazzi ballano e basta. Non li vedi?”.

Già, ballavano e basta, scatenati e felici. I volti limpidi come l’innocenza.

 

 

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