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PERDERSI PER TROVARSI: LA TERRA IN PRESTITO DAI NOSTRI FIGLI

 

LA CITTÀ E LA CRISI DELL’INDUSTRIA 

Alexander Langer

Alessandro Leogrande

1 Settembre,1989 

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Dall’epoca della presa del potere dell’industria e del mercato su di essa dimensionato, molte cose sono cambiate, con una rapidità via via crescente – anzi, con una “velocizzazione” tremenda, se questa espressione mutuata dalla pubblicità per le automobili può essere consentita.

Dalla faticosa lotta degli uomini contro la natura siamo passati ad una situazione in cui la natura quasi non ce la fa più a difendersi dall’uomo. Da una condizione in cui si assegnava valore alle cose a seconda della loro utilità e difficoltà di produrle o reperirle siamo passati a valori totalmente fittizi e convenzionali che ormai sono soltanto “prezzi”, cioè valutazioni artificiosamente assegnate dal mercato, senza quasi nessun rapporto con il loro valore reale: per rendersene conto basterebbe immaginare un attimo i prezzi ed i beni da essi misurati in una situazione di emergenza come una catastrofe, una guerra, un luogo isolato…: risulterebbero subito di cartapesta. La nostra idea di viaggio e di movimento non ha più alcun rapporto con le persone ed i paesaggi che si attraversano, né con paesi e popoli da raggiungere. Nell’approccio alle cose, l’imballaggio (materiale e culturale) prevale di gran lunga sui contenuti. Il tempo di vita che si è allungato molto sotto il profilo quantitativo non appare “liberato” e consegnato alla sovranità di chi lo vive, ma fortemente alienato e sostanzialmente determinato da altri. E si potrebbe continuare a lungo.

 

Tra le modificazioni più profonde che caratterizzano questo cambiamento progressivamente “velocizzatosi”, vi è una di particolare gravità: vorrei chiamarla l’“impatto generazionale” di tutto ciò che noi oggi facciamo, sia a livello macro-sociale che micro-sociale.

Un tempo il danno più grande che gli uomini potevano infliggere, prolungato nel tempo, era la deportazione dei figli di un popolo, il disboscamento di una montagna, l’incendio (oltre che il saccheggio) di un città, l’avvelenamento dei pozzi. Delitti orrendi, tutti questi, ma relativamente rari – casi estremi di ferocia o di insipienza, per così dire. Ma gran parte dell’umanità viveva incidendo solo modestamente, sul futuro. Era poco quel che un uomo poteva quel che un uomo poteva costruire, accumulare, realizzare e lasciare agli altri dopo di sé. Ed era anche poco il danno che – nella peggiore delle ipotesi – poteva combinare.

Oggi la situazione è assai diversa e continua a cambiare con crescente velocità. I più piccoli atti – anche spensierati – possono diventare la goccia che fa traboccare il vaso. Ogni nuova automobile acquistata ed immessa sulle strade, aumenta notevolmente l’effetto dell’inquinamento. Ogni bomboletta spray minaccia l’ozono. Ogni aumento degli armamenti – o dei rifiuti, o della cementificazione, o della rumorosità o della proliferazione di prodotti chimici di sintesi non più biodegradabili… -- porta non solo l’umanità ed il pianeta più vicino alla soglia dell’irreversibilità del degrado, ma provoca anche effetti sinergici che si potenziano a vicenda in un gigantesco intreccio di cause e di concause che portano al disastro.

Si dice, giustamente: “mai una generazione ha avuto tanta responsabilità e tanto potere su quelle azioni quanto la nostra”. E si rincara, giustamente, osservando che “mai una generazione prima della presente ha avuto nelle sue mani la stessa decisione se lasciar continuare la successione di generazioni o se interromperla o metterla comunque assai pericolosamente a repentaglio”.

Che fare, che cosa pensare, come atteggiarsi di fronte a questa situazione nuova e del tutto inedita, nella quale per la prima volta nella storia l’umanità (in porzioni, invero, assai differenziate e ingiuste) consuma più di quanto la natura riesca a rigenerare, e viene quindi intaccato lo stesso albero, e non semplicemente mangiati i suoi frutti?

La risposta dei profeti di catastrofi appare ascetica ed univoca: ravvedersi, rinunciare, cambiare strada, tirare la cinghia: in nome della paura che la visione degli effetti della nostra “civiltà” suscita, si dovrebbe trovare la forza di risparmiare l’esito altrimenti inesorabile verso l’irreversibile. Il guaio è che la paura, anche dinnanzi alla catastrofe ecologica, è cattiva consigliera, nella realtà poi prevale piuttosto l’assuefazione, l’arte di arrangiarsi, quando non addirittura la dissipazione accelerata e ostentata, perché “tanto siamo perduti e non c’è niente da fare se non godersi quel che ancora si può godere”.

 

Più concreto è il legame e più solida la motivazione di chi pensa ai propri figli ed alle future generazioni più in generale.  Lasciare a loro un mondo degradato ed inquinato, consumato e desertificato, plastificato ed artificializzato spaventa, e rende dubbiosi sul senso stesso del futuro, oltre che del cosiddetto progresso.

Quando il movimento verde riassume questa consapevolezza nella frase “la terra ci è stata solo prestata dai nostri figli” (che era poi il motto riassuntivo del primo grande convegno nazionale dei verdi italiani nel 1985), indica in una efficace sintesi una misura ed una regola che forse può aiutare a temperare le spinte della “velocizzazione” e guidare i comportamenti riferibili al futuro.

Ecco perché si può parlare di “impatto generazionale” delle nostre scelte, azioni, omissioni. Deforestare oggi non è la stessa cosa che deforestare nel Medioevo: amputare una gamba a chi già è malato di polmoni, soffre di artrite ed ha avuto qualche infarto non è la stessa cosa che intervenire su una persona sana. Le ripercussioni delle nostre scelte ormai spesso si avvicinano alla soglia di irreversibilità o la oltrepassano addirittura: la contaminazione nucleare, la costruzione artificiale di nuovi esseri viventi che poi a loro volta trasmettono la vita, la galoppante riduzione delle foreste pluviali… Come fare per non restringere in modo inaccettabile le possibilità di scelta e di vita dei posteri, come moderare il nostro ormai prepotente e spesso irreparabile “impatto generazionale”? 

Qualcuno è tentato da risposte dittatoriali: l’austerità forzata, la compressione delle generazioni presenti pur di assicurare un possibile futuro ai posteri, l’autoritarismo ecologico dirigista e pianificatore (in materia demografica, dei consumi, delle libertà ammissibili, ecc.). Ma l’esperienza storica finora ha dimostrato che nessuna risposta autoritaria e dittatoriale è mai riuscita ad incarnare davvero interessi “superiori” o di lungo periodo: anche a prescindere da ogni ragione di attaccamento alla democrazia, si può semplicemente osservare che il sacrificio di libertà  e di democrazia che esse comportano, non viene ripagato in termini di benefici sociali o ecologici, ma anzi aumenta i rischi di appropriazione ed uso incontrollato di poteri, risorse e sovranità sul futuro di tutti. Ecco perché riguadagna una forte attualità l’insegnamento del “perdersi per trovarsi”: solo una linea di consapevole autolimitazione del proprio “impatto generazionale” potrà segnare dei confini democratici e convincenti alla nostra usurpazione del futuro e della sovranità di chi verrà dopo di noi. Ma la linea di siffatta autolimitazione non potrà affermarsi né senza una forte spiritualità che sviluppi le motivazioni in quella direzione, né attraverso un’ideologia ed una pratica di negazione del presente in nome di un futuro (nostro o dei posteri). Distruggere il presente per salvare il futuro non può essere una proposta né convincente, né vincente. Forse la questione dell’“impatto generazionale” trova una risposta nel suo elementare atto costitutivo: generare un/a figlio/a non potrà mai essere un atto di semplice rinnegamento di sé e di precedenza assegnata al futuro: avviene se ci sono le necessarie spinte (di amore, di speranza, di realizzazione di sé, di piacere) anche nel presente. Certamente comporta poi numerosi e profondi momenti di rinuncia a se stessi, accettati volentieri non solo dopo la speranza di ritrovarsi più “ricchi” e più gratificati in un “dopo”, ma anche per tutte le soddisfazioni che ritornano già strada facendo. Se non si trovano nel presente (per esempio nel rapporto di amore) sufficienti ragioni per volere un futuro – che poi potrebbe anche deludere, questo si sa – non vi potrà essere alcuna astratta ragione, nessun rapporto del “Club of Rome” o delle Nazioni Unite, che riuscirebbe a convincere larghe moltitudini di gente a rinunciare a qualcosa pur di lasciare un mondo non ridotto all’osso a chi verrà dopo di noi. Riappare quindi tutto intero il nocciolo del problema di una società che non voglia vivere nel nome del “dopo di noi il diluvio”: (ri)scoprire in positivo i valori dell’autolimitazione del proprio “impatto” (ambientale, sociale, culturale, estetico… generazionale), (ri)convincersi che lasciare tracce dà maggior soddisfazione che produrre voragini e che con la lentezza si può vivere meglio che con la velocità. Non solo, quindi, “in nome dei figli”, ma anche per interesse ed amore proprio. Ricongiungere le ragioni “altruiste” (in genere nobili, ma non sempre efficaci nel muovere grandi masse di persone) con ragioni più “egoiste” e verificabili anche nel presente è oggi un compito ed una opportunità della sfida ecologista: “perdersi” (rinunciando per esempio alla motorizzazione privata di massa, alla salute ed all’igiene meccanizzata, ai diversi sogni di onnipotenza energetica o bio-tecnologica o militare…) può significare davvero ritrovarsi, già nel presente, oltre che lasciare qualche possibilità in più a chi ci seguirà e vorrà pure lasciare le proprie… (speriamo) tracce, senza restare sepolto dalle nostre voragini. “Perdersi” e “trovarsi” non può funzionare in due tempi lontani tra loro e la voce delle future generazioni non è delegabile a nessuna rappresentanza “superiore” o esterna al presente. Sarà uno dei più difficili problemi politici da risolvere, quello di come immettere momenti di (auto-)limitazione all’impatto generazionale delle scelte che oggi si compiono nel breve volgere delle legislature e per ragioni a volte legate persino a meschini sondaggi elettorali o miserabili giochi di potere e di profitto. Per arrivare a questo compito di vera e grande riforma dovrà, per intanto, almeno diffondersi la coscienza che questa sia una urgente necessità ed una nuova ed impellente priorità.

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in Servitium, Settembre 1989

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© 2004-2020 Fondazione Alexander Langer Stiftung

20 Gennaio, 2017 

 

Vorrei provare qui ad argomentare un’idea in cui credo fermamente da molti anni: la storia del gigantismo industriale e la storia dell’abbandono della città vecchia sono due facce della stessa medaglia. Tutte le analisi di Taranto all’interno delle quali le due narrazioni vengono slegate, o tenute separate, risultano mancare di qualcosa. Il racconto che va per la maggiore in questi anni, che vede Taranto quale sinonimo del disastro industriale, come se si fosse creata dal nulla una storia di gigantismo industriale, non correlata con la storia urbanistica, culturale e politica di lungo periodo della città, è appunto un racconto monco. E d’altra parte, ogni ri-narrazione di Taranto, della sua identità o presunta somma di identità, e del rapporto di tutto ciò col centro storico, che non tenga conto della sua storia novecentesca, dei segmenti di storia novecentesca alle spalle, rischia a sua volta di essere monca.

Nella storia recente di Taranto è evidente invece che l’industria – non solo come peso e portato materiale nella vita del capoluogo, ma anche come manifestazione ideologica di un’idea di progresso, di una idea di sviluppo – e  l’abbandono dell’isola, della città vecchia, con la costruzione di una città che è stata nel Novecento la negazione della città vecchia, corrono su binari paralleli. Già in epoca umbertina, la Città Nuova, anche nei suoi esempi urbanistici migliori, si costruisce ideologicamente come negazione della città vecchia, mentre la città abbastanza caotica e sfasciata, che continua a crescere e a ingrandirsi dagli anni Settanta in avanti, è a sua volta una negazione dell’isola e del centro storico. Questa frattura, peraltro, non riguarda solo Taranto ma tutte le città epicentro della industrializzazione nel Sud. In La dismissione, ad esempio, Ermanno Rea coglie perfettamente l’antitesi fabbrica-vicolo, e l’ergersi della fabbrica, e del lavoro di fabbrica, e della vita legata al lavoro di fabbrica, come netta contrapposizione al mondo dei vicoli.

Questo processo, a mio avviso, raggiunge il suo acme – e allo stesso tempo il suo punto di rottura – proprio negli anni Settanta del secolo scorso. Esattamente in quegli anni, tutti, più o meno tutti, chiedono non il recupero ma l’abbandono della città vecchia, e la creazione di case popolari altrove ma non in città vecchia, e allo stesso tempo si chiede a gran voce tutti – più o meno tutti, quasi tutti – il raddoppio del centro siderurgico. Sia rispetto a un fenomeno, sia rispetto all’altro, le voci dissonanti, le voci fuori dal coro, sono pochissime.

Sono stati già fatti, per quanto riguarda la città vecchia, i nomi di Giulio Carlo Argan, Cesare Brandi, Antonio Cederna, Giuseppe Ungaretti… non a caso tutti legati all’esperienza del Premio Taranto e alla rete stabilita da Antonio Rizzo intorno alla “Voce del popolo”. Sono i primi, gli unici, a gridare allo scandalo contro l’idea scellerata di abbattere la città vecchia, tenendo in piedi solo tre-quattro monumenti di pregio, e a sostenere invece che quell’aggregato umano, lungamente insediato, va preservato. Però viene da dire, ribadisco, che al di là delle ipotesi hard, come quella di distruggere la città vecchia per tenere in piedi solo alcuni monumenti di pregio, quella idea di sviluppo, per cui il progresso era fuori dalla città vecchia, irrimediabilmente fuori dall’isola e dai vicoli, si estende a macchia d’olio, ben al di là delle tesi più oltranziste.

Allo stesso tempo la richiesta di gigantismo industriale, la richiesta del raddoppio del centro siderurgico, attraversa negli stessi anni tutte le forze politiche. Motivo per cui ho sempre pensato che la tesi secondo cui a Taranto si è insediata una forma di colonialismo industriale fosse un po’ miope: sicuramente c’è stato uno sviluppo calato dall’alto, ma questo sviluppo non è stato certo imposto con la forza, è stato accettato – se non addirittura preteso – dalle forze politiche e sociali, ovviamente secondo vari gradi di partecipazione, di consenso, di motivazioni e interessi, ma ciò non toglie che si possa dire che, dalla Dc alla nuova sinistra, il raddoppio lo volevano tutti. E anche in questo caso le voci fuori dal coro, sfogliando i giornali dell’epoca, sono pochissime.

Viene in mente il Walter Tobagi che adotta per primo, in relazione a Taranto, l’espressione “metalmezzadro”. La Taranto che descrive Tobagi nel ’79, pochi mesi prima di essere ammazzato, è una città che presenta tutte le contraddizioni esplose nei trent’anni successivi: in una città che allora aveva il Pil pro capite più alto del Mezzogiorno, e che dell’industria  percepiva solo le “magnifiche sorti e progressive”, quel gigantismo industriale mostrava già chiaramente i suoi piedi d’argilla. Non solo perché, visto retrospettivamente, quello sviluppo siderurgico non avrebbe avuto lunga vita, incontrando presto la crisi del mercato mondiale. Il motivo era soprattutto un altro: la fabbrica appariva a Tobagi come una cattedrale nel deserto che aveva pochi rapporti con la provincia limitrofa. Non aveva generato un indotto virtuoso. E, d’altro canto, benché una delle tesi correlata alla creazione del polo industriale fosse quella che esso avrebbe favorito la creazione di una nuova classe operaia, di un nuovo mondo del lavoro e del diritto, a Taranto più che una classe operaia nel senso sociologicamente più stringente del termine, si è creata una composizione più complicata, in cui la fetta dei cosiddetti “metalmezzadri”, cioè di coloro i quali venivano a lavorare in città dai piccoli paesi della provincia ma poi la sera tornavano in provincia, mantenendo intatte le strutture culturali del Sud agricolo, era rilevante.

Anche Giorgio Bocca, in quegli anni, si accorge che qualcosa sta andando storto, e lo scrive in un reportage sul “Giorno”. La sua tesi è lapidaria: qui stanno costruendo un gigante industriale, che si mangia le altre forme di lavoro, si mangia la terra e ben presto si mangerà anche l’aria… Ma qual è l’alternativa locale? Qual è l’alternativa fornita dalla classe dirigente locale, dall’imprenditoria locale, dalla classe politica locale, rispetto a tutto questo?

Evidentemente non c’era. Per questo io credo che proprio lì, alla metà degli anni Settanta, si stringono a filo doppio i due fattori.Proprio negli stessi anni del raddoppio del siderurgico avviene il crollo di Vico Reale, in cui perdono la vita sei persone, tra cui tre bambini. È il 13 maggio del 1975. Ricordo anche qui un bellissimo articolo di Antonio Cederna, pubblicato sul “Corriere della sera”. Cederna scrisse senza mezzi termini: è caduto un solaio e non un palazzo; pertanto criminalizzare l’intera Taranto antica per la caduta di un solaio è un’operazione intellettualmente scorretta, che mira ad altro. È chiaro che si sarebbe dovuto intervenire per mettere in sicurezza una parte della città, ma la questione ancora una volta non era azzerare un tessuto urbanistico e sociale di lunga data, bensì intervenire su tutti quei casi di sovra-costruzione che, come sappiamo bene, gravano su gran parte dell’abitato dell’isola.

Come notava Cederna, invece, il crollo sarebbe stato adottato come grimaldello per lanciare lo slogan “fuori dalla città vecchia”: dal momento che è troppo complicata risanarla, si vada via, si costruiscano case popolari altrove, magari nell’estrema periferia. Cederna è fra i più acuti a notare quanto balzana, malsana e illogica sia stata l’esplosione urbanistica di Taranto, e come l’altra faccia della medaglia del mancato recupero – si intenda la parola “recupero” nel senso più ampio possibile, ovviamente – della città vecchia sia stata la costruzione di una città piuttosto brutta.

Si può dire che la mancata cura dell’alienazione all’interno della città vecchia non ha fatto altro che spostare quella medesima alienazione nelle periferie, senza risolverla. L’incuria del centro ha prodotto a sua volta una città priva di centri, una città estremamente slabbrata, in cui si fa fatica a individuare dei sotto-centri reali, anche in periferia.

Che cosa abbiamo ora intorno a noi? Abbiamo un panorama fatto di macerie ben più visibili di quelle degli anni Settanta. Non solo le macerie della storia industriale, che rendono evidente la necessità di elaborare un rapporto critico rispetto ad essa, ma anche le macerie del tessuto urbanistico. Chiunque prenda la macchina e si faccia un giro per Taranto, per tutta Taranto, per l’enorme perimetro della città di Taranto, ha davanti agli occhi una città slabbrata, una città esplosa, che si è estesa urbanisticamente senza senso intorno alla negazione del centro storico, una città che ha raggiunto in fretta i duecentocinquantamila abitanti e che ora ne ha solo duecentomila. Ma questo è solo il dato che fotografa gli abitanti ufficialmente residenti. Come sappiamo, il dato non copre il fenomeno di massa della nuova emigrazione giovanile, intellettuale e operaia, verso l’esterno. Tra gli under 30 e gli under 40 che non intravedono prospettive concrete, questo è un fenomeno ormai radicale. Per cui i residenti effettivi sono molti di meno. In breve, Taranto è ormai una città svuotata in ogni suo isolato. Una città groviera.

Qualche anno fa un urbanista milanese, Alessandro Coppola, ha scritto per Laterza un libro molto bello intitolato Apocalypse Town. L’oggetto del suo studio erano le città statunitensi della cosiddetta “cintura della ruggine”: Youngstown, Baltimora… cioè quelle città che, dopo essere state dei grandi poli siderurgici, hanno vissuto in pieno la crisi di quel modello di sviluppo. Dopo la crisi dell’acciaio, che ha visto in tutti quei centri il ridimensionamento se non addirittura la chiusura degli stabilimenti, e l’avvio di una gravissima crisi economica, quelle città si sono drammaticamente spopolate. Così si è assistito a un fenomeno, su vasta scala, di sfilacciamento urbano e di creazione di città-groviera.

Leggendo quel libro, mi sono venute in mente molte riflessioni a proposito di Taranto. Anche noi abbiamo davanti ai nostri occhi una città-groviera: le stesse considerazioni che fino a dieci anni fa si potevano fare solo sulla città vecchia, oggi si possono estendere anche al Borgo, anche a un’area molto più estesa del Borgo. Pertanto gli obiettivi davanti a cui è posta la città, al di là del superamento della crisi industriale, sono i medesimi di quelle città americane. Occorre riammagliare il tessuto urbano, aggrupparlo, e però per farlo c’è bisogno di un’idea di centro.

Nel corso degli ultimi quarant’anni Taranto ha perso due centri: sia la città vecchia, sia il Borgo. Tante volte ho avuto l’impressione che per un liceale di oggi, rispetto a quando ho fatto io il liceo alla metà degli anni Novanta, Taranto appaia una città molto più amorfa, anomica: ancora più priva di centro – di centri –  di quanto non lo fosse allora. E per “centro” intendo quel luogo in cui si sedimenta l’agorà della vita sociale, in cui si fa socialità, si costruiscono relazioni più ampie. Taranto è una città in cui la socialità si è molto più sfilacciata, non solo rispetto a quarant’anni fa, ma anche rispetto a vent’anni fa.

Lo ripeto: ogni riflessione sul futuro di Taranto deve avere a che fare con la necessità di riammagliare la città e di ritornare a riflettere sul suo centro. E questa riflessione non può prescindere da una riflessione la più ampia possibile sulla città vecchia e l’esodo che ha subito. Aggiungo anche che alle nostre spalle, nel passato più recente, ci sono dei macigni enormi. Gli anni 2000 a Taranto non sono stati solo gli anni dell’esplosione del disastro ambientale. Lo sono stati, è vero, però è fin troppo miope non ricordare che solo cinque anni prima dell’esplosione del disastro ambientale Taranto è stata l’epicentro di uno dei dissesti finanziari più eclatanti della storia repubblicana. Nei vari record che la città infila uno dopo l’altro, solo cinque anni prima di essere definita la città con la produzione di diossina più alta d’Europa, Taranto era la città che aveva prodotto il più grande buco di bilancio dopo la Napoli di Gava, nel ’91. Ma ciò in una città che è un sesto della Napoli di allora, e della Napoli di oggi.

Quel dissesto finanziario non è stato un evento naturale: è un fatto che ha una sua precisa manifestazione politica, e quindi una sua precisa responsabilità politica. Per giunta, tale esperimento di razzia della cosa pubblica è stato drammaticamente interrelato al mancato intervento nel centro storico e a una mancata riflessione sulle sue sorti. Detto in parole povere: sono stati indebitamente sottratti, in parte, proprio quei soldi che si sarebbe dovuto destinare al piano Urban in città vecchia.

Quando si parla di futuro della città, il peso del passato purtroppo non può essere aggirato. Non possono essere aggirati né i condizionamenti novecenteschi che ancora gravano sulla città, né la sua storia politica recente, che ne fa un laboratorio politico (o post-politico) tra la metà degli anni novanta e la metà del decennio successivo. Ogni riflessione sul centro storico non può prescindere da tutto questo. Nei periodi di confusione – e questo è un periodo di confusione, è un periodo in cui la città è stata sovente lasciata sola, salvo poi essere ripresa ogni tanto per i capelli ed essere fatta oggetto di slide nelle conferenze stampa del governo – credo che bisogna rifarsi a chi, nel corso del Novecento, una visione ereticale e spesso minoritaria sulla città l’ha avuta. In questo, l’esempio di Argan, Brandi, Cederna rimane luminoso, perché è proprio nelle loro riflessioni che si condensa una lettura della città di lungo periodo. Di lungo periodo sia rispetto al passato, sia rispetto al futuro.

 

 

A un anno dalla morte, Associazione Ranuccio Bianchi Bandinelli ha pubblica sul proprio sito il testo dell’intervento di Alessandro Leogrande al convegno “Taranto, la Città, la Storia”, organizzato dall’Associazione il 20 gennaio del 2017. 

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